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ZONA CESARINI – Retorica della Na(rra)zione

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Patria:

“L’ambito territoriale, tradizionale e culturale, cui si riferiscono le esperienze affettive, morali, politiche dell’individuo, in quanto appartenente a un popolo”.

Italia

Devo cogliere come un segnale la conversazione avuta in una delle mille chat in cui sono coinvolto. Si parlava di patria e onore (tranquilli non è tribuna politica della Meloni da Predappio).

In particolare il discorso partiva dalla bella immagine degli Azzurri abbracciati a cantare l’inno a squarciagola e si faceva riferimento a come certi valori si siano persi e un’immagine del genere andrebbe paradossalmente appesa nelle scuole. Naturalmente si è subito andati a contestare che ragazzini ricchi e viziati se ne freghino altamente della “patria” e cantino più per le telecamere che altro.

Io questo onestamente non lo so, non mi permetto.

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Dal canto mio ho sempre amato l’Italia e il fatto di essere italiano. Amo le mille sfaccettature del paese, i dialetti, le mille cucine, città o paesetti neanche a dirlo. Amandola ne riconosco i mille difetti e, come quando si ama, mi incazzo per tutto ciò che dovrebbe essere ma non è. Amandola la sommergo di critiche, ma guai a chi, da fuori, me la tocca.

E pur amandola non ho mai avuto il concetto di nazione. Ascolto volentieri l’inno ma non sento il bisogno di alzarmi, non mi interesso di foto di Presidenti negli uffici pubblici, tantomeno di quelle dei Papi. Non critico chi lo fa – attenzione – semplicemente il “nazionalismo” non mi coinvolge. Per me la patria è altro e già nella definizione a inizio articolo ci sono cose che non vanno: un siciliano e un bergamasco cosa hanno a che spartire in termini di tradizioni, cultura ed “esperienze”? Zero

Però possono condividerle, amarle e rispettarle. Crescere insieme. D’altra parte l’Italia le sue radici le ha costruite sulle contaminazioni fatte e subite, non è nata così come è oggi e tra cento anni ne avrà di diverse.

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La foto

Parlavo di segnale. In effetti poche ore dopo la conversazione succitata avrei visto dappertutto la foto che forse davvero una nazione dovrebbe mettere negli uffici pubblici a ricordo di cosa significa patria.

Al minuto 43 di una noiosissima Danimarca-Finlandia succede di tutto. Eriksen si accascia al suolo e tutto il racconto del dramma è noto.

La Patria fa ciò che ci aspetterebbe: si cinge a proteggere il figlio caduto dal nostro malsano voyeurismo, col suo capitano (uno vero e non i pagliacci da circo della politica) dritto a guardare un “figlio” che lotta, un capitano piegato a soccorrerlo, un capitano che corre a fermare una moglie perchè, nel peggio che per fortuna non è stato, non avesse negli occhi quell’ultima immagine.

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Questo fa la patria degli uomini che non è definibile solo da confini terreni.

Una cosa di cui non si è parlato (o almeno io non ne ho letto), riguarda l’immagine di twitter che ha ridato un pò di speranza dopo le notizie che davano il ragazzo per morto: a “proteggerne” l’uscita c’era una bandiera finlandese, un vessillo “nemico”, “straniero”. Retorica del racconto per carità, in quel momento si è preso tutto ciò che capitava, ma trovo simbolico e meraviglioso anche questo, così come il coro uniforme delle due tifoserie a chiamare il calciatore.

Simon Pietro

Simone era l’apostolo che diventerà Pietro, su cui Gesù fonderà la sua Chiesa. Ormai vado per iperbole, inutile rallentare.

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Simon Kjaer fece una breve apparizione nella Roma “cartonata” che diede il via al circense decennio pallottiano. Giudicato tra i più scarsi acquisti della storia giallorossa, nell’evidenza delle prestazioni, i teloni colorati “luissenriquiani”, oltre alla mediocrità del progetto, ci hanno evidentemente nascosto l’Uomo Kjaer. O magari dieci anni in più lo hanno reso tale.

Eh sì, perchè Kjaer è Uomo (inteso come essere umano non come maschio). Kjaer e la sua Danimarca hanno già vinto l’Europeo, perchè nessuna immagine sarà mai più forte di quelle viste il 12 giugno 2021. Con queste immagini il calcio smette di essere un “gioco” e torna, di diritto, a essere uno Sport: coi suoi valori di correttezza, rispetto, reciproca solidarietà, che poi sono concetti che si sposano con “patria” e squadra, nel nostro immaginario infantile, dovrebbe essere una piccola patria.

Spero al prossimo derby di Milano di vedere entrambi i ragazzi, intanto perchè non sappiamo le conseguenze dell’evento sulla vita e la carriera di Eriksen. Vorrei che fossero un simbolo dell’uomo che cade e si sa rialzare, ma se non riesce, anche della mano tesa ad aiutarlo. Chissà che davvero da un dramma se ne esca migliori.

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Vorrei che troncasse il filo di una narrazione che, per fare esempi di bassissimo profilo in casa mia, vedono Nesta e Totti nell’impossibilità di cenare insieme o Pellegrini non poter fare gli auguri a Immobile solo perchè noi sfigati (io per primo) abbiamo deciso che non si può.

Tornando alla storia, come ad Hollywood, Eriksen si salva, ed è l’unica cosa che conta naturalmente. Come ad Hollywood, due ore dopo si rigioca la partita, vuoi per volontà dei compagni, vuoi per “cortesi sollecitudini” dell’UEFA e, in una storia di cinema, i danesi avrebbero vinto, magari con gol del capitano.

Ma, per quanto interessi, vince la Finlandia e lo stesso Kjaer esce dal campo quasi subito, scosso e deconcentrato.

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Ad Hollywood (come del resto nei film propagandistici del Reich di Leni Riefenstahl) la retorica di una narrazione pretenderebbe un eroe e Kjaer corrisponde. Solo che lui non è un eroe, è un Uomo. Io gli eroi li leggo nei libri, perchè, di fatto, non esistono, ma è di fronte agli uomini che “mi levo il cappello”. Ne abbiamo bisogno, di eroi, per creare la narrazione. Ne abbiamo bisogno perchè, sembra strano, essere semplicemente Uomini è la cosa più difficile del mondo.

 

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