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Maldini: “Mai in un club italiano diverso dal Milan”

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Maldini Milan
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L’ex capitano e bandiera del Milan, Paolo Maldini, ha parlato a Radio TV Serie A toccando tantissimi argomenti legati al passato, al presente e al futuro.

Queste le parole di Paolo Maldini:

“Dopo cinque anni intensi dal punto di vista lavorativo ho dovuto abituarmi a un ritmo diverso, che ho avuto anche dal 2009 al 2018, da quando ho smesso di giocare a quando sono diventato dirigente”.

Cosa rappresenta per lei il Milan?

“Era qualcosa presente da prima che io nascessi, mio papà è stato calciatore del Milan. È la squadra della mia città, l’ambiente dove sono cresciuto.

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Ho iniziato a giocarci a dieci anni e ho smesso a quarantuno, va al di là del tifo o del lavoro: è estrema passione. Il rapporto che c’è va oltre le ere in cui sono passato attraverso questa grande società.
Ogni squadra può far sì che il tifoso rivendichi qualcosa di particolare, noi milanisti abbiamo un passato glorioso con delle cadute, ma alla fine è più facile che i tifosi ricordino i momenti brutti per poi tornare a quelli belli: noi in questo siamo stati maestri, i rimbalzi del Milan negli anni sono stati clamorosi”.

Ha trofei e cimeli a casa?

“Ho recentemente allestito il mio studio con le medaglie, il primo anno di Serie A ho collezionato maglie, poi ho smesso. Avevo diciassette anni, non sapevo quanto sarei andato avanti, poi ho visto che le cose andavano bene e ho iniziato a regalare cimeli.

Chi mi sento oggi? Io mi considero quello che sono: Paolo. Cerco di fare la mia vita basandomi sulla fortuna che ho avuto ad avere la mia famiglia e aver incontrato le persone giuste nella mia vita.
Sarò sempre riconoscente a quegli ambienti e al Milan, mi hanno aiutato a crescere e capire tante cose della vita. Anche questa mia ultima esperienza da dirigente mi ha fatto capire quante cose non si sanno della vita stessa, quindi c’è sempre voglia di capire, conoscere e imparare: non si finisce mai, anche nel calcio”.

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Lei è il custode del milanismo?

“Non lo so, di sicuro il calcio e il Milan mi hanno insegnato tanto come valori e principi: questa è una cosa di cui devi tener conto quando lavori per questo club. È qualcosa di importante che va al di là del risultato, quando si parla di una storia ultracentenaria credo che vada conosciuta, studiata e rispettata.
Responsabilità nell’essere Paolo Maldini “milanista”? Non la sento, quando vado in giro mi sento Paolo e non “il milanista”. È normale che quando la gente mi vede le domande sono rivolte al Paolo Maldini calciatore, ma credo che la gente negli anni ti apprezzi anche come persona, non solamente come calciatore, ho cercato di non scindere il calciatore dalla persona. È questione di disciplina, il calcio insegna ad avere obiettivi, devi capire chi vuoi essere”.

Ora è il momento di suo figlio Daniel

“È un destino da cui non si scappa, la sua è stata una scelta libera, come quella di Christian, di giocare. È successo a loro quello che è successo a me: c’è un papà ingombrante, credo che soprattutto i primi anni da ragazzo vuoi giocare, divertirti ed essere uno dei tanti.
Ci sono pressioni, lui e Christian sapevano a cosa sarebbero andati incontro.
Se avessi potuto cancellare questa cosa l’avrei fatto, per dare loro anni più sereni. Si divertono, lo sport è molto democratico, alla fine va avanti chi ha valori. Deve essere uno stimolo o diventa una pressione troppo forte, soprattutto oggi con i social e un’attenzione spasmodica, ai miei tempi era diverso”.

La sua passione per il calcio?

“A me piaceva il calcio, sapevo del passato di mio papà, avevo capito quello che aveva fatto. Io ero tifoso di calcio in generale, amavo la Nazionale, la prima competizione che ho visto in televisione è stato il Mondiale del ’78, una squadra composta da tanti giocatori della Juventus. Mi sono appassionato alle loro storie, seguivo la Juventus come fosse la Nazionale. Poi ho fatto un provino con il Milan e le cose sono tornate come dovevano essere.
La mia famiglia? Le prime tre figlie erano femmine e molto brave, poi sono arrivato io che ero complicato perché avevo un sacco di energia da scaricare. Sono stato un ragazzo molto vivace e curioso, in quegli anni si viveva molto per strada, che dava insegnamenti e poteva creare problemi: io mi sono mosso bene da questo punto di vista.
La Milano degli anni Settanta? Se leggo la storia di Milano era un periodo molto complicato, se penso alla mia ricordo la scuola, l’oratorio e i tanti amici, non ho vissuto una Milano pericolosa. Cos’ho imparato dalla strada? Ad avere gli occhi aperti. Gli anni Ottanta sono stati un bel periodo, sono arrivato in Serie A con la mia squadra.
La combinazione calcio, moda e Milano c’era, ho avuto la fortuna di conoscere Armani, Versace e tante persone di quel mondo. Era una Milano bella da vivere, si guardava al futuro sorridendo. Il mio rapporto con Milano? Il milanese si sente perfetto per Milano perché è una città che ti lascia vivere, va scoperta piano piano.
Una volta che ci vivi inizi a scoprirla e ti fa innamorare piano piano, vedo in Milano tante caratteristiche che sono mie.
Siamo simili nella discrezione, nella riservatezza nel non far vedere tutto subito. C’è anche la bellezza nascosta delle cose, a Milano ho trovato una famiglia e la possibilità di giocare in una squadra con le mie stesse ambizioni”.

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Ricorda il suo provino al Milan?

“Ricordo bene quel giorno: mi accompagnò mio padre, il provino si poteva fare solamente dopo il compimento dei dieci anni, prima avevo giocato in oratorio e nei giardini.

Non avevo mai giocato a 11, non sapevo che ruolo potessi fare, li facevo tutti. C’erano diversi ruoli a disposizione, sono partito come ala destra. A fine provino un allenatore mi fece firmare il cartellino.
Ho fatto i primi anni l’ala destra e l’ala sinistra, poi a quattordici anni ho fatto il terzino destro. A quindici feci un’amichevole con la prima squadra del Milan e a sedici fui convocato in prima squadra. Cos’è stato quel provino? L’inizio della mia storia col Milan, da quel momento ho scritto la mia storia.
Giocando in diversi ruoli da piccolo puoi sviluppare determinate caratteristiche che poi nel calcio moderno non sviluppi più. La tattica l’ho fatta in prima squadra, è molto più facile insegnare concetti tattici che di marcatura o di dribbling, che se non impari in quegli anni non impari più.
Giocare in strada e al parco è stata una fortuna, ogni singolo rimbalzo del pallone ha sviluppato in me la conoscenza di qualsiasi traiettoria del pallone. Il timing che avevo sulla palla è dovuto a carrieristiche mie e a tutti quei rimbalzi e a quelle traiettorie che ho visto nei campi irregolari. Scuole calcio di oggi? C’è tempo per imparare la tattica e meno tempo per imparare la tecnica.

Se non sviluppi disciplina in quegli anni è dura, per la tattica c’è tempo, è un’evoluzione continua. La tecnica e l’1 contro 1 farà sempre la differenza, si ritorna sempre lì.
Vedevo Daniel quando ha iniziato a giocare nelle giovanili del Milan: per un anno ha avuto un allenatore che ha fatto allenare solo dribbling e 1 contro 1.

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È un approccio interessante, va studiata e insegnata nei settori giovanili. Capacità di tenere il pallone, non temere la pressione e provare un dribbling può essere fondamentale anche per un difensore”.

Poi l’esordio col Milan

Liedholm mi disse: “Malda, entri”.
Sono entrato a destra e ho fatto il mio esordio. Ci penso perché ogni tanto fanno vedere qualche immagine, soprattutto il 20 gennaio sui social o in televisione.
Sono legato moralmente alle relazioni che ho avuto con le persone e ai momenti. Vittorie e sconfitte mi ricordano le relazioni con le persone, non si è soli nelle vittorie e nemmeno nelle sconfitte.
Cosa mi ha insegnato Liedholm? A giocare a calcio con una visione moderna, mi disse: “ricordati di divertirti, il calcio è divertimento”.

A volte ci si dimentica di questo, dovrebbe essere alla base dell’idea di uno che vuole diventare calciatore. Credo ci sia tanta passione, ognuno esprime i propri sentimenti in maniera diversa. È dura fare il calciatore, c’è una competizione con gli altri pazzesca, in tanti ci provano e il 98% fallisce.

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È dura, ma è anche bello: se perdi la gioia non riesci a migliorare. Ogni calciatore sa che quella è passione e gioia. Cosa mi ha tolto il calcio? Magari un pezzo di gioventù quando da ragazzo non uscivo mai di sabato e di domenica perché dovevo giocare. Ma si può dire che il calcio mi abbia tolto qualcosa? No, lì è iniziata la mia disciplina e l’idea del sacrificio.
Mi sono sentito realizzato in una cosa che volevo fare, ma non posso dire che il calcio mi abbia tolto qualcosa. Forse l’abilità fisica, finita la carriera sono riuscito a giocare con gli amici per tre/quattro anni qualche partita di Legends, ma poi sinceramente è impossibile per me correre. Riesco a giocare a tennis, non mi dà molto fastidio, ma calciare un pallone mi fa male, potrebbe essere pericoloso”.

Il suo rapporto con Silvio Berlusconi?

“Ha portato un’idea moderna e visionaria del calcio e del mondo in generale.

Ricordo il primo discorso, eravamo in una sala a pranzo a Milanello e ci disse che voleva vederci giocare il miglior calcio del mondo, giocando allo stesso modo sia in casa che fuori. Era convinto che saremmo diventati presto campioni del mondo, arrivò a stagione in corso, ma dall’anno dopo cambiò tutto: palestra, alimentazione, Milanello, allenatore diverso e nuovi preparatori atletici.
Era tutta farina del suo sacco: aveva già immaginato una struttura adatta per andare a competere con le migliori squadre al mondo. C’è sempre tanta diffidenza per l’imprenditore che entra nel calcio. È stato forse più difficile quando ha preso Sacchi, è stato il vero stravolgimento calcistico.
Tutto il resto intorno a noi era fatto per farci crescere come persone.
C’erano dirigenti con ruoli ben specifici, c’era rispetto delle regole”.

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Cosa fece Sacchi di speciale?

“Sacchi stravolse la nostra idea di allenamento e di gioco, non aveva ancora fatto molto nel calcio ad alto livello e questo poteva creare qualche dubbio. Quando poi abbiamo capito i reali vantaggi credendo in lui abbiamo iniziato a volare. Berlusconi ha fatto tanto, la sua impronta è ovunque.

A me piaceva molto la sua idea di cercare di giocare bene e di vincere, rispettando l’avversario. Quando diceva che se non avesse vinto il Milan gli avrebbe fatto piacere vincesse l’Inter lo credeva veramente.

Naturalmente c’era rivalità, ma quest’idea di essere onesto e riuscire ad arrivare al risultato attraverso il sacrificio, il lavoro e una visione diversa complimentandosi con l’avversario è stato un grande insegnamento”.

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Poi il rapporto si è deteriorato con Silvio Berlusconi?

“No, sono diventato amico di Piersilvio e sono stato ad Arcore tante volte come suo amico.

Il Presidente mi ha sempre detto: “Sono un tuo secondo padre” e così è sempre stato. Due anni fa mi aveva invitato ad Arcore a fare un pranzo con Galliani.
Guardando il passato li ho ringraziati per quello che hanno fatto per me, per il Milan e per il calcio, dicendo loro: “Solo adesso capisco la grandezza di quello che è stato fatto”, un lavoro enorme. Quando è stato ricoverato in ospedale, il giorno che è uscito mi ha chiamato, pochi giorni prima della sua morte.
Voleva fare degli scambi con il Monza, voleva sapere di alcuni giocatori, mi parlava dei suoi calciatori e li conosceva benissimo.
Il calcio lo ha accompagnato fino all’ultimo, lo ha vissuto come passione e questo si trasmette, all’ambiente, agli allenatori e ai calciatori. Un ambiente vincente lo crea la città, il luogo di lavoro e le persone.
Torniamo alle relazioni, credo che siano importanti, coltivate nel tempo lasciano sempre un segno”.

Arrigo Sacchi, Fabio Capello e Carlo Ancelotti.

“Con Sacchi ci siamo subito messi a disposizione, ma è stata durissima, fisicamente e mentalmente.
Dal punto di vista fisico c’era più conoscenza rispetto ad altri club, ma non ancora abbastanza, sono andato in overtraining per mesi e questa è una cosa che fisicamente non mi faceva stare bene. Era una cosa da calibrare, in partita non puoi rendere, soprattutto all’inizio: hai alti e bassi, io ero ancora molto giovane e in quell’età si ha meno stabilità rispetto agli adulti.

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Era dura, io arrivavo al venerdì che mi chiedevo come avrei fatto a giocare la domenica.
Sembrava impossibile, ma tutto questo ha alzato il livello generale ed è stato un bene per tutti. Quando abbiamo capito che era l’allenatore giusto? Quando abbiamo vinto a Verona abbiamo iniziato a sentire qualcosa di diverso, non c’era nessuna corrente contro di lui, ma era duro adattarsi a quel tipo di idea. Ci ha insegnato a vincere, il Milan di quegli anni aveva grandi giocatori.

Perché è finita con Sacchi? È normale, quando trovi una persona così esigente che deve gestire un gruppo, è un prodotto che ha una scadenza. Quando sei così ossessionato ti consumi facilmente e questo succede a tutti i grandi allenatori”.

Poi Capello.

“Era un uomo di campo, dava sempre piccoli esempi di cose da fare. Sono dettagli che ti formano, è una persona pratica, ha rallentato i ritmi di allenamento di Sacchi proseguendo il suo lavoro.
Quel Milan lì, dei primi anni ’90, è stato in assoluto il più forte, tra titolari e riserve avevamo giocatori di altissimo livello.
Capello ha aggiunto praticità a un concetto a volte utopistico come quello di Sacchi. Ma senza quel concetto utopistico probabilmente certe vittorie non le avremmo raggiunte. È stata la perfetta combinazione, la fortuna è aver avuto esattamente in quest’ordine Liedholm, Sacchi e Capello, un’evoluzione a livello personale e credo anche di tutto il Milan”.

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Il rapporto con Ancelotti da allenatore?

“Ci si comporta in maniera naturale perché non puoi fare finta che il passato insieme non ci sia stato. Non c’era bisogno di dire tante cose, veniva naturale dal momento che c’era rispetto dei ruoli e delle persone.
Carlo è una persona tranquilla, ma la sua è una maschera. Tante volte prima delle partite importanti si sedeva vicino a me e diceva: “Sono teso, ma guardo te rilassato e mi calmo”. Io facevo lo stesso con lui.
Giocavamo a trasmettere questa calma apparente all’ambiente che ne aveva bisogno”.

La fascia da capitano del Milan, i compagni e la Nazionale.

“Nel 1997 avevo ventinove anni, erano già tredici anni di Serie A e tre anni da capitano della Nazionale.
Mi ero abituato a quel tipo di ruolo, farlo al Milan quotidianamente era diverso, le responsabilità erano ampie.
Momento più duro da capitano? Non parlavo tanto, ero più riservato, è un ruolo che impone determinate cose e le devi imparare. Coppa più bella? La prima è indimenticabile, sono tutte belle e distribuite in vent’anni, questa è la fortuna.
Quella di Manchester è arrivata a nove anni dopo l’ultima alzata, forse quella è stata la più ambita, perché ero capitano ed era passato tempo”.

Il compagno più forte di tutti?

“Come forza morale e caratteristiche Franco Baresi era un giocatore pazzesco, non parlava mai, agiva, era perfetto.
Poi ho giocato anche con Van Basten, tanti giocatori sono anche arrivati in momenti non idilliaci: Ronaldo e Ronaldinho sono i due giocatori tecnicamente più forti che abbia mai visto giocare, però sono arrivati a fine carriera. Giocare contro Ronaldo dell’Inter era dura: a me piaceva giocare 1 contro 1, ma con Ronaldo era dura.
Non si fermava, le regole erano più permissive rispetto ad oggi, potevi usare più il fisico ma era grosso, veloce e tecnico”.

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Tentazioni da altre squadre?

“No, ci sono stati dei momenti delicati all’interno del mio club. Le cose non andavano bene e c’era amarezza da parte mia, che però mi portava a provare a migliorare le cose. Per andare via ci deve essere una squadra che ti chiede, la tua volontà e quella del club: queste tre cose non sono mai arrivate insieme.

Il no al Real Madrid? Difficile dire di no: può accadere solo se non sei contento al Milan, in quegli anni il Milan era la squadra di riferimento. Pallone d’oro? Non penso a ingiustizie nella mia carriera, è un premio individuale che non faceva parte degli obiettivi che mi ero posto.

Non era una certificazione, per me lo sono altre cose. Io il più grande perdente della storia? È un discorso ampio, naturalmente poi viene presa solo quella frase. Le vittorie passano attraverso le sconfitte, ho perso tante finali e ne ho giocate altrettante vincendole, la stessa cosa si può dire di Federer o di un grande tennista, è un discorso ampio, non posso considerarmi un perdente nella vita”.

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Istanbul resta una ferita aperta?

“No, anche perché dopo Istanbul c’è sempre Atene.
Rimpianto per il Mondiale 2006? Ne ho giocati quattro, Lippi mi parlò, ma l’anno prima iniziavo ad avere problemi al ginocchio e faticavo già a fare i doppi impegni col Milan.
Volevo preservare il mio fisico senza essere un peso.
Avevo anche già detto di no a Trapattoni nel 2004, non mi sembrava giusto dire di no a lui ma sì a Lippi. Magari se ci fossi stato io non avremmo vinto, quindi è stato giusto così”.

L’esperienza da dirigente?

“Ho capito di voler fare il dirigente quando mi hanno chiamato, non sempre hai ben chiaro quello che vuoi fare, ma ho provato a capire quello che non avrei voluto fare.
Non volevo fare l’allenatore, non volevo lavorare in televisione.
Quando è arrivata l’opportunità ho analizzato bene la cosa, con Leonardo ho trovato una persona con i miei stessi principi e ideali, si parla sempre di lavoro di squadra all’interno di un club.
Ho scelto di fare il dirigente in primis perché era il Milan, poi nei trentuno anni di esperienza ho avuto cose da raccontare e insegnare. Poi c’è il lavoro in sé, che è tutt’altro rispetto a ciò che ci si aspetta.

Milan, Nazionale o niente? È una regola che vale soprattutto per l’Italia, non riuscirei mai a vedermi in un club diverso dal Milan”.

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Interesse del PSG?

“Non ho mai detto di no, prima del Milan sono stato tre volte a Parigi e avevo dato la mia disponibilità, poi la cosa non è andata avanti; pensandoci adesso è stato un bene, sarei entrato in una società ancora in grande evoluzione, in un paese che non conoscevo, con una lingua che non conoscevo.
I miei primi dieci mesi da dirigente sono stati di apprendimento, mi sentivo inadeguato, stavo imparando e non riuscivo a determinare qualcosa.

Leonardo rideva, mi diceva che mi sarei reso conto pian piano del mio impatto. È stata una fortuna iniziare a lavorare con lui”.

Va allo stadio a vedere il Milan?

“No, non vado più, è logico. Lo seguo insieme a Monza ed Empoli dove giocano i miei figli.
Ho creato tanti rapporti, è una questione di relazioni. Quello che abbiamo creato non è stata solo una squadra vincente, ma anche tante relazioni con i giocatori.
Ne sono arrivati circa trentacinque nel corso dei cinque anni, con ognuno di loro si è creato un rapporto speciale. Quando vedo la fascia sinistra del Milan è sinceramente uno spettacolo”.

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Chiusura con l’Inter campione d’Italia.

“È molto indicativo quello che è successo. L’Inter ha una struttura sportiva che determina il futuro dell’area sportiva. È stata gratificata con contratti a lunga scadenza, c’è stata un’idea di strategia. Non è un caso che il Napoli sia andato male dopo gli addii di allenatore e direttore sportivo. Si dà poca importanza alla gestione del gruppo, a volte si considerano i giocatori come macchine che devono produrre qualcosa, ma per farlo servono persone che li aiutino a farlo.

Il supporto ai calciatori credo che sia ancora qualcosa di inespresso nel calcio sia in Italia sia a livello mondiale, ci si dimentica che sono ragazzi giovani che hanno bisogno di supporto e di qualcuno che dica loro le cose come stanno, non sempre è facile arrivare a parlarne con loro.
Il passato può far paura? A volte sì, ma non è detto che il fatto di avere un grande passato da calciatore ti debba per forza dare un presente da dirigente. Sono due lavori completamente diversi, fin quando non si prova non si sa. Quando non ti danno l’occasione è perché probabilmente il tuo passato è ingombrante e la gente lo sa.
È quello che ho sempre detto, quando mi hanno chiamato ho detto: “Ma siete sicuri?”, perché devi sapere pro e contro. Mi piace giocare a carte scoperte”.

(Foto: Depositphotos)

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