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Il danese gigante

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Paura, terrore, angoscia. Attimi lunghissimi. Poi la decisione: Simon Kjaer è uno dei primi a “lanciarsi” verso il compagno. L’ha visto cadere, ma sa cosa fare. Gli altri, i danesi e i finlandesi pure, sono sgomenti: chi piange, chi si passa le mani tra i capelli; alcuni si sbracciano in direzione delle panchine, dove il soccorso medico ha intuito la situazione e sta già correndo dall’altro lato del campo.

Lo sgomento si è diffuso finanche alle tribune: i primi mugugni cominciano a serpeggiare insieme ai timori. All’arrivo dei soccorritori, però, Simon aveva già predisposto tutto, in modo che i medici potessero fare il loro lavoro. Lo si intuisce dal suo sguardo: è terrorizzato. Ma sapeva cosa fare in quel frangente e l’ha fatto.

Simon chiama i compagni a rapporto, formano una barriera umana. Nel calcio di oggi si è pieni di telecamere, ma questa cosa non può e non dev’essere spettacolarizzata. Braccio a braccio, creano una catena di maglie rosse. Alcuni sono girati dal lato opposto ai medici: piangono, non vogliono guardare. Simon no. Simon si erge sugli altri, moralmente e fisicamente. Testa alta, mento all’insù. Deve guardare, deve sapere. Ora più che mai, c’è disperato bisogno di farlo.

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Sabrine scende dalle tribune. È sconvolta: se esiste una cosa “peggiore”, tra le cose peggiori, è quella di assistere impotenti. Impotenti e distanti. Gli addetti la fanno entrare sul terreno. Incontro, ancora una volta, le va Simon. Lui e Schmeichel,  il portiere della formazione danese. Le fanno da scudo, la avvolgono tra le braccia. Lei sembra piccolissima in confronto ai due. E’ disperata. Simon prende il suo viso tra le mani, come a dire: “Forza, resistiamo”. Il soccorso è terminato, i medici portano Christian via, direzione: ospedale più vicino. La gara è sospesa, i calciatori tornano lentamente negli spogliatoi. Finché non si ha l’ok del fuori pericolo, a giocare non si torna.

L’ok alla fine arriva, e solo Dio sa che boccata d’aria è stata. Un sospiro di sollievo che vale cent’anni di vita. Alla fine in campo si torna, il pubblico applaude e la gara ricomincia. Ma Simon è stanco e si vede. Chiede il cambio, viene sostituto. Applaudito. Pianto di gioia. Perché se l’episodio di Eriksen in Danimarca-Finlandia ci rende ancora una volta conto della caducità della vita, dell’imprevedibilità degli eventi e della fatua esistenza stessa dell’uomo, l’azione di Kjaer, invece, ci mette di fronte alla scelta: quella di agire; quella di fare qualcosa; quella di non voltarsi dall’altro lato. A prescindere da quanto minima e insignificante, quella scelta va fatta. Perché ci sarà sempre qualcuno che ne avrà bisogno. E dovrà sempre esserci qualcuno che possa almeno porgere una mano anche solo per una carezza. Proprio come Simon Kjaer.

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