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NUMERO 14 – Le battaglie dell’Abatino

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Il Dizionario della lingua italiana Treccani è lapidario. Alla voce “abatino” recita: “riferito, nel linguaggio dei commentatori sportivi ad un atleta dotato di classe e di capacità tecniche ma non di potenza fisica, per cui risulta inconcludente, poco incisivo”. Il giornalista Gianni Brera, un virtuoso della parola dotato di una penna tanto sardonica quanto mordace, racchiude il suo pensiero su Gianni Rivera confezionandogli questo soprannome come se fosse una giacca su misura. E’ un parere, diventa ben presto opinione comune. Non genera semplici discussioni, emergono immediatamente stridenti prese di posizione. Nessuna via di mezzo: o si è contro oppure a favore. E il diretto interessato si trova costretto a combattere, fino alla fine della sua carriera, contro una definizione capace di scaraventarlo in un istante dagli altari alla polvere. Le battaglie dell’Abatino.

Bello da vedersi, ma in concreto…

Lo sguardo di Brera è irridente sin dal loro primo incontro, Gianni gioca ancora nell’Alessandria. Gli riconosce lo stile, la raffinatezza del tocco, una straordinaria eleganza nel coordinarsi. Ma poi ironizza sul suo torace scarno, rileva la mancanza di scatto, dubita della sua resistenza. Si, il ragazzino è davvero bello da vedersi ma poi in concreto che benefici apporta? E’ un lusso che una squadra come il Milan non può permettersi, non è l’uomo giusto su cui puntare le proprie fiches di vittoria. Il direttore tecnico rossonero, Gipo Viani, da accanito giocatore di poker, conviene con il giornalista. Meno allineato è il neoallenatore Nereo Rocco, uno che ama la sostanza ma non è insensibile all’estetica. Lui il Gianni l’ha scrutato per bene durante gli allenamenti, è pronto a giurare che c’è qualcosa di irrinunciabile nelle sue aperture di prima. Vuole capitalizzarle: via dalla fascia, il suo posto è al centro del campo. Fronte alta, verticalizzazioni radenti per gli attaccanti e gol a raffica. Con questa formula il Milan vince il campionato 1961-62 e l’anno dopo è allo stadio Wembley di Londra per contendere la Coppa dei Campioni ai campioni uscenti del Benfica. Il fuoriclasse portoghese Eusebio porta in vantaggio i suoi ma il maghetto Rivera tira fuori dal suo cilindro due lanci al velluto per il centravanti Altafini e ribalta il risultato. Il Milan è Campione d’Europa, prima squadra italiana a riuscirci. Lui, l’artefice del trionfo, ha zittito drasticamente i detrattori. Brera, per ridimensionarlo, parla genericamente di “rilanci dalle retrovie”, gli altri cronisti intonano peana in suo onore, lui stringe in pugno la Coppa come se fosse un bottino di guerra. Le battaglie dell’Abatino.

Quella straordinaria annata

Le stagioni successive sono complicate: il suo tutore Rocco sceglie altri lidi, i suoi successori non trovano il giusto feeling con il gruppo, i risultati latitano. Rivera continua ad essere il faro del gioco milanista ma il duello a distanza con Brera non conosce tregua. Il giornalista insiste sui suoi limiti atletici, sulla sua ridotta autonomia, sulla scarsa tempra da combattente. Una parte della stampa segue la sua scia, l’altra si pone di traverso, la questione da individuale diventa collettiva. Ormai non si discute solo sul  giocatore,  ma sull’intero sistema di gioco. Brera teorizza sull’indispensabilità di uno schieramento arroccato in difesa, pronto a speculare sugli errori dell’avversario e infilzarlo in contropiede. In un contesto del genere, fatto di difensori inchiodati nell’area di rigore, centrocampisti votati unicamente a mordere le caviglie degli avversari ed attaccanti abbandonati a se  stessi è chiaro che uno come Rivera diventa di troppo. Dall’altra parte, il vicedirettore del Corriere della Sera Gino Palumbo la vede all’opposto: tutti all’attacco, occupazione degli spazi e veloce circolazione della palla. In questo scenario uno come lui (visione di gioco superiore, rapidità di pensiero idem) è il naturale centro di gravità della squadra. Mentre le dispute giornalistiche infuriano attorno a lui, l’ormai capitano del Milan (con la complicità di Rocco, tornato a casa) guida la sua squadra alla conquista di un nuovo scudetto. L’annata successiva, il 1969: è da incorniciare: trionfo in Coppa dei Campioni, vittoria in Coppa Intercontinentale e conquista del Pallone d’Oro come miglior giocatore europeo. Affermazione completa sia a livello di squadra che individuale. E in bacheca potrebbe  anche esporre gli scalpi dei suoi nemici come ulteriori trofei. Le battaglie dell’Abatino.

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Contro la classe arbitrale

L’apice della controversia, però, si raggiunge l’anno dopo, al Mondiale del Messico. Il suo utilizzo diventa un caso diplomatico, si paventa l’ipotesi di escluderlo, lui minaccia di abbandonare il ritiro. Alla fine prevale una soluzione “politica”: un tempo da giocare a testa per lui e il suo eterno rivale Sandro Mazzola, una cervellotica staffetta che gli precluderà la finalissima con il Brasile (eccetto gli ultimi sei minuti finali). I giornali si interrogano per settimane sulla sua esclusione, il c.t. Valcareggi glissa sull’argomento, i tifosi risparmiano solo lui dalla contestazione inflitta a tutti gli altri azzurri. Gianni si riprende immediatamente il suo Milan ma incappa in una serie incredibile di tre secondi posti in tre campionati consecutivi. A parer suo quello che determina la sequenza dei piazzamenti d’onore è una congiura. La pietra dello scandalo è il rigore concesso al Cagliari dall’arbitro Michelotti nella partita contro i rossoneri del 12 Marzo 1972. Gigi Riva lo mette a segno e condanna il Milan alla sconfitta. Rivera, in sala stampa, spara a zero sul designatore degli arbitri Giulio Campanati: lo accusa di voler condizionare il campionato, di brigare per non far vincere il Milan, di scegliere apposta determinati fischietti per indirizzare i risultati delle partite. La risposta della Lega Calcio è un esposto che porta la Procura Federale a comminargli una  maxi squalifica di tre mesi e mezzo. Campionato finito e scudetto consegnato ai rivali. Stavolta lo scontro si è tenuto fuori dal campo e ha avuto la meglio qualcun altro. Le battaglie dell’Abatino.

Contro il Milan

La stagione successiva è quella della disfatta di Verona. Il testa a testa con la Lazio per il titolo è risolto dal naufragio dei rossoneri nella città di Giulietta e Romeo. Rivera, da buon capitano, affonda con i suoi ma non risparmia frecciate, insinuando che, anche stavolta, l’assegnazione del tricolore è passata per strani itinerari. I risultati deludenti inducono, l’anno dopo, il Presidente milanista Buticchi ad esonerare l’adorato Mister Rocco a campionato in corso. Gianni è scoraggiato, rimugina su scelte drastiche, si sente sempre più un corpo estraneo all’ambiente rossonero. Alla fine, dopo un litigio con il nuovo tecnico Giagnoni, sceglie addirittura il ritiro nel Maggio 1975. Ma è tutto un bluff: a Settembre si accorda con amici che rilevano la società per conto suo, gli impone il nome del nuovo allenatore e indossa di nuovo la sua maglia numero 10. L’ex ragazzino dai piedi d’oro è cresciuto, ha capito quali sono le regole che governano certi meccanismi ed è andato addirittura contro il Milan per riaffermare se stesso. L’ultimo trionfo, lo scudetto del 1979, è quello di un Rivera ormai fin troppo consapevole di un carisma che travalica lo spazio dei 90 minuti. Le battaglie dell’Abatino.

 

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