Approfondimenti
NUMERO 14 – Uno di noi

Questa volta si parte dalla fine. Dopo aver raccontato i difficili inizi della carriera di Baggio a Firenze (cfr. “Un ragazzo una città“) e recensito sia il film Netflix sulla sua vita (cfr. “Roby, grazie di tutto”) che la sua autobiografia (cfr. “L’uomo dietro al campione”), adesso si tirano le somme. E lo si fa assieme al lettore.
Chi scrive è consapevole che avrebbe potuto farlo in un pezzo antecedente ai tre sopra citati, in un discorso introduttivo, ma preferisce farlo adesso. E le motivazioni della scelta saranno più chiare man mano che si procede nella lettura.
Viene facile pensare a Baggio come a un moderno Cincinnato. Il generale romano, dopo essere stato nominato dittatore a furor di popolo, aveva salvato la sua città dalla minaccia degli invasori per poi ritirarsi a vita privata a coltivare i suoi campi. Nessun debito di riconoscenza da sfruttare in futuro, nessuna speculazione sulla popolarità appena ottenuta in ottica di potere politico. Allo stesso modo, vedendo Baggio sul trattore, nei suoi poderi di Altavilla Vicentina, ci si stupisce di come quest’icona dei tempi moderni non abbia mai riscosso l’enorme credito che ha nei confronti del pianeta calcio. Nessuno gli avrebbe negato una panchina, un ruolo da dirigente o quantomeno da opinionista televisivo. Il suo nome, prima ancora che la sua reputazione, sarebbe stato già sufficiente per aprirgli qualsiasi porta. Mai chiesto nulla, tantomeno preteso. Non ha mai nemmeno pensato di farlo.
Anzi, rimane perplesso quando ci si domanda perché non l’abbia mai fatto. E’ davvero cosi strano, chiede, pensare che abbia voglia di una esistenza diversa, ora? Che sia cosi felice, adesso, della sua vita senza calcio?
Chi si pone certe domande non ha ben presente la sua storia: troppo dolore fisico da scontare al termine di ogni partita, troppe scorie mentali da scaricare nel privato.
E’ sempre stato la sua ancora di salvezza, sin dai tempi del primo, tremendo infortunio. Che poteva essere anche l’ultimo. La pietra tombale su una carriera appena iniziata. E su tutti i suoi sogni.
A quei tempi c’era sua madre a vegliare su di lui nel suo letto d’ospedale. Più intenta ad aiutarlo a dissipare i brutti pensieri che a vigilare sul suo riposo. E a dirgli di credere nel recupero, che sarebbe tornato più forte di prima.
In seguito è stato il turno di Andreina: la sua vicina di casa, quella con cui è cresciuto, compagna di giochi divenuta compagna di vita. Incredibile a dirsi ma, in tempi di calciatori-divi che passano da una storia da rotocalco all’altra, Baggio ha sposato il suo primo amore, la ragazza con cui stava dai tempi dell’adolescenza.
E ha creato una famiglia divenuta poi un rifugio solido come la roccia.
Questa meravigliosa normalità, lontana anni luce dallo stereotipo del campione che vive in una bolla dorata, lo rende simile ai suoi tifosi. E abbatte le barriere che esistono tra chi conduce una vita da divo e chi può solo osservarla da lontano.
Ci si meraviglia che si sia dedicato a tempo pieno ai suoi affetti? Baggio suggerisce che ci si dovrebbe stupire del contrario, che non l’abbia fatto prima.
Come non amarlo, quindi? A questo punto l’incredibile affetto incondizionato di cui gode è pienamente giustificato da chi può specchiarsi in lui. E riconoscersi.
Non valgono più le divisioni da clan, Baggio è simile ad ognuno di noi, Baggio appartiene ad ognuno di noi. A prescindere dal colore della maglia che indossa.
La sua storia lo dimostra: il brillante campionato disputato con la Fiorentina impallidisce al confronto con le prestazioni offerte al Mondiale casalingo del 1990; le vittorie ottenute con la Juventus non sono minimamente paragonabili agli exploit di Usa ’94; la stagione mostruosa con il Bologna non regge il confronto con i tocchi di classe dispensati al Mondiale francese del 1998.
Quasi non ci si ricorda con quale squadra giocasse ai tempi, tanto l’unica maglia che gli calza davvero bene addosso è quella azzurra.
Al punto che il gesto di Trapattoni, il suo diniego a convocarlo per i Mondiali nippo-coreani del 2002, appare al popolo democratico come un atto di lesa maestà. E venga perdonata la contraddizione in termini istituzionali.
Baggio è la versione in carne ed ossa dell’Uomo Ragno: gli incredibili poteri che gli sono stati donati fanno di Peter Parker uno di quelli che dovrebbe salvare il mondo.
Cosa che puntualmente fa, e senza aspettarsi riconoscimenti da nessuno. Quello che conta, alla fine di ogni scontro con il supercriminale di turno, è il ritorno dall’adorata Zia May, la donna che l’ha cresciuto da sola, il suo punto di riferimento.
E’ stato inevitabile cucirgli addosso i panni di salvatore della patria. Comunque, e in ogni situazione. Troppo necessario il suo talento fuori dal normale. Anche a chi l’ha sempre osteggiato per salvaguardare i suoi interessi e poi ha avuto l’obbligo di metterlo in campo. Prima che fosse troppo tardi.
L’intransigenza tattica di Arrigo Sacchi ad Usa ’94 stava partorendo una ingloriosa eliminazione negli ottavi contro la Nigeria. Solo un barlume di lucidità del tecnico di Fusignano suggeriva di tenere comunque Baggio in campo. Decisione benedetta dagli Dei e giustificata in pieno dalle magie del giocatore, capace di trascinare una squadra frastornata e in perenne debito di ossigeno fino alla partita decisiva.
Non è l’unico esempio: Lippi ed Ulivieri hanno avuto atteggiamenti simili, il giocatore passato dal ruolo di emarginato a panacea di tutti i mali in un battito di ciglia.
Sofferenza, problemi fisici, incomprensioni di tutti i tipi, invidie e malignità assortite: il Destino non si è davvero risparmiato nel complicare l’esistenza di questo individuo che ha avuto l’intelligenza di accettarlo, facendo suo il principio del Karma secondo cui ogni cosa che avviene nella vita dipende esclusivamente dalle scelte che si fanno.
E lui ha scelto di essere se stesso, quello che, guardandolo giocare “ si torna bambini”.
Non ci sono parole migliori di quelle che ha coniato il cantautore Lucio Dalla per spiegare perché Roberto Baggio è stato, e sempre sarà, uno di noi.