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Angolo del tifoso

ANGOLO JUVE – C’è tempo

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A me hanno insegnato che in realtà non conta il numero dei giorni, ma quanto valore si dà ad ognuno di essi. Certo non pretendo di applicare chissà quale corrente filosofica alla ben più terrena passione calcistica, ma considerata l’influenza di ogni singolo risultato sulla nostra personale curva giornaliera dell’umore forse toccherebbe parlarne con qualcuno, o almeno affondare il cucchiaio nella vaschetta di gelato al gianduia.

Il tempo della Juve è finito da una manciata di ore. Un tempo lungo nove anni, in cui a volte ci sembrava di poter galleggiare sulle nuvole, altre di star vivendo su un funambolico filo. A volte abbiamo dovuto sopportare sberle, ma a fine anno i colori a sventolare erano sempre gli stessi, sempre due, sempre così meravigliosamente opposti. Il mondo, o alcuni direbbero il karma, ha scelto il modo peggiore per far sì che perdessimo questa splendida abitudine, consegnando il trofeo tra le mani di chi per anni lo ha accarezzato con colori diversi, i nostri. Lasciando che una tasca potesse sentire ben più di un cuore, è un professionista, così dicono i ben informati. Ben vi sta, così ripetono incessantemente i feriti nell’orgoglio da almeno uno di questi irripetibili nove anni.

Avrei potuto immaginarne tante di conclusioni a questo ciclo splendido. Ma la mia seppur fervida immaginazione non si sarebbe mai potuta spingere così in là da consegnare un trofeo a chi nel nostro stadio si vede intitolata una Stella. E non posso biasimare chi si prende gioco di me, perché questo particolare è ben più difficile da digerire di uno scudetto mancato: prima o poi toccava tenerla vuota la teca dell’anno.

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Ma non così.

Una lotta all’ultima giornata per restare in corsa alla zona Champions: non me l’immaginavo di certo così il primo anno di Andrea Pirlo da allenatore. Non immaginavo di dover rincorrere e pregare per poter ancora una volta vivere le emozioni europee del mercoledì. C’è di nuovo Bernardeschi tra i titolari, Morata è acciaccato, manca Chiesa, l’unico che in questo anno funesto che avrebbe meritato di vedersi consegnata a casa la maglietta celebrativa. Torna Dybala accanto al solito Ronaldo, che da tre partite non mette a segno un goal.

Basterebbe questo a far comprendere la portata del disagio che regna alla Continassa, ma evidentemente non basta: perché all’indolenza di Cristiano si trascina quella di tutta la squadra. A dieci minuti dal fischio d’inizio, l’intera linea difensiva se la prende così tanto comoda che si lascia sfuggire il destro di Molina, che indovina l’aggancio sulla punizione tirata da De Paul. Tek Szczesny incrocia il pallone tra mani e piedi, ma non riesce a bloccarlo.

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Forse è il fondo del baratro, forse non lo è. Del resto puoi sempre cominciare a scavare, puoi tuffarti alla McKennie che tenta invano di battere Scuffet, e raggiungere il fondo della fossa delle Marianne in cui ci siamo cacciati. Può arrivare qualcuno a lanciarti una cima, tipo De Paul col braccio largo. Cristiano si autoassolve con la freddezza dal dischetto, magari sapessi farlo io. A lui perdoneremmo quasi tutto, figurarsi quando rimette in sesto un match a dieci minuti dalla fine. Con l’Udinese stremata dopo aver difeso il risultato fino al rigore del portoghese, Rabiot piazza un cross per la testa del solito Sette a due minuti dal termine del tempo regolamentare.

La portiamo a casa, con le brutte. Con il fastidio nel cuore per uno scudetto finito in mani che troppo bene conosciamo, ma forse non abbastanza.

Tocca non farsene un cruccio. La Squadra si congratula con i vincitori, Andrea Agnelli si congratula con Zhang, la nazione intera riconosce i meriti sportivi. E poi ci siamo noi, che sfogliamo l’album dei ricordi, e ci chiediamo perché sia finita così, e perché non ci abbiamo capito assolutamente nulla.

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Ma magari è anche il caso di smettere di chiederselo.  Se le cose non hanno ragione di continuare c’è sempre un motivo, uno di quelli validi. Ma soprattutto, e per fortuna, c’è sempre tempo per voltar pagina, per guardarsi dentro, e capire che è finalmente tempo di ricominciare a guardare fuori.

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