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ÇA VA SANS DIRE – Tutto è perduto fuorché l’onore

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Ca va sans dire Ciro Romano
Tempo di lettura: 4 minuti

https://www.youtube.com/watch?v=8FB9GYkIT3E

 

В России даже лучшая команда Красной Пресни умереть не может!

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In Russia -anche a crepare- squadra migliore della Krasnaja Presnja non puoi trovare!

Vladimir Majakovskij

Antica Roma, prima di Cristo.

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La Macedonia è già Provincia Romana quando annettono la Tracia: coacervo di nomadi e pastori, ogni tribù è una rivolta. La malerba della libertà sparge il seme: le rive della Struma partoriscono l’Eroe.

Predestinato dai Numi, sposa la sacerdotessa di Dioniso e viene coscritto alle Milizie Romane. Ribelle per diritto di nascita, sovverte le regole della Centuria ed incontra la schiavitù: leader rivoluzionario, fugge con settanta uomini che diventano quarantamila. L’esercito di schiavi metterà sotto scacco Roma: lo spettacolo degli oppressi che si sollevano armi in pugno e surclassano la più grande potenza del mondo resta tra i più esaltanti della Storia. La rivolta, condannata fin dall’inizio, risuona nei secoli ad ispirare uomini e donne che si ribellano ai potenti. La sconfitta non impedì al figlio di Tracia d’assurgere alla Gloria Eterna.

Egli era Spartaco e, primo nei tempi, incarnò l’emblema della rivoluzione proletaria. Il vento della Storia propagò l’eco delle sue gesta molto, molto a lungo.

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Madre Russia, inizi del Ventesimo Secolo.

Figlio d’un guardaboschi dello Zar, Nikolaj Starostin cresce coi tre fratelli nella Presnja: quartiere complicato, irrequietezza moscovita. Sui lastroni della Moscova è consuetudine fare a botte con i malacarne di Dorogomilov: intere giornate a picchiarsi nell’implicito rispetto di regole non scritte. Ragazzacci d’onore, quelli lì. La città non offre molto altro.

Oddìo, qualcosa in realtà ci sarebbe. Sbarcati nel porto di Odessa, Marinai Inglesi -ma guarda un po’…- hanno mostrato i rudimenti d’un gioco che dapprima incuriosisce. Poi interessa. Fatalmente affascina. La passione per il calcio entra nei cortili, esce negli spiazzi, raggiunge la Capitale. È un attimo e tutti gli apparati della nomenklatura si dotano di una squadra: il CSKA l’Armata Rossa, la Dinamo il KGB, la Lokomotiv i Ferrovieri.

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I fratelli Starostin portano il pallone alla Presnja: dalle polveri della Rivoluzione d’Ottobre e del comunismo di guerra, ecco sorgere la Krasnaja, unica espressione indipendente del popolo. Il campo sportivo se lo costruirono i ragazzi della Quartiere, aiutati dai giovani del Komsomol: dal Partito, nulla. Nikolaj ha intanto perso il papà: mantiene lui la famiglia, gioca a hockey su ghiaccio in inverno e a calcio d’estate. Vestirà la fascia di capitano di entrambe le Nazionali Sovietiche. Con Aleksandr, Andrej e Pëtr porta la Krasnaja Prensja agli onori della ribalta. Fin troppo: il Partito impone l’affiliazione. Nikolaj non si piega e trasforma il sodalizio in polisportiva ad ampio respiro popolare: serve un nuovo nome. Alla cui scelta provvede una cerchia ristretta di eletti.

Il parto dura una notte intera: taluni -pochi- declamano il Manifesto, talaltri -tutti- vuotano una Stolichnaya e poi un’altra ancora. All’alba Nikolaj barcolla verso l’uscio senza il nome, quand’ecco: impolverato sullo scaffale di legno, lo scritto d’un Italiano, Raffaello Romagnoli. La copertina lo cattura col nome del condottiero che levò il capo davanti al Potere Supremo, per mano del quale morì senza piegarsi: versato dal cirillico, si pronuncia pressappoco Spartak. E fu.

Simbolo della rivolta degli oppressi, in uno Stato nato dalla sollevazione degli sfruttati: la classe operaia adotta lo Spartak. Un modo, forse l’unico, per dire di No!

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Nata su iniziativa di un gruppo di amici, è l’unica squadra che non dipende da dicasteri ma fa capo al Komsomol, l’Unione Comunista della Gioventù. Utopia romantica nell’ostinata affermazione della libertà, va a sbattere contro l’ottusa invidia dei dirigenti. Lavrentij Berija, capo della polizia segreta, è il presidente onorario della Dinamo: da giovane, è stato umiliato sul campo da Nikolaj, cui ha giurato vendetta. Nel 1942, ne ordina l’arresto dietro l’accusa di aver complottato per l’assassinio di Stalin. Senza uno straccio di prova.

I fratelli Starostin sono condannati a dieci anni di gulag. Berija non ha semplicemente imprigionato quattro uomini: sono il simbolo dello Spartak, megafono dei Sovietici che non si rassegnano, col quale scandire a voce alta il dissenso che altrove nemmeno potevi sussurrare. Scontano la pena senza piegare il capo, dettando fieri il proprio epitaffio.

Tutto è perduto fuorché l’onore

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Il potere aveva ottenuto la propria vendetta sul popolo, sulla libertà. Non l’aveva tuttavia consumata.

Stadio Lenin, 20 ottobre 1982.

L’autunno sbatte gelido contro il Gigante che scricchiola. L’embargo americano post Afghanistan alimenta la corruzione ormai endemica: Breznev è moribondo ma la perestrojka è lontana. Il Partito si aggrappa ermeticamente ad un Sistema Socialista fatalmente in crisi. Il dissenso continua a serpeggiare sulle tribune dello Spartak.

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Coppa Uefa: il bussolotto porge il nome di una sconquassata compagine olandese, tal HFC. Desueta ai palcoscenici, è trascinata da un leone scuro con la criniera rasta destinato a conquistare l’Europa mescolando classe a strapotere fisico. Proprio lui, Ruud Gullit. È un freddo inusuale finanche a quelle latitudini, ma i Figli di Spartaco non rinunciano: quindicimila anime libere vengono sistemate nell’unico settore agibile. Dal campo nulla di memorabile, ma le palle di neve tirate contro la polizia -per scherzo, si capisce…- valgono la pena. Gli uomini in divisa non la prenderanno così bene.

Verso la fine comincia il deflusso. Il servizio d’ordine, senza un motivo che non fosse odiosa ripicca, apre un varco soltanto. Quello stretto. Una donna cade, qualcuno inciampa ed il ghiaccio fa il resto. Da dietro non si capisce, nel mezzo chi spinge chi incespica, chi è in fondo resta schiacciato. Non è successo ancora nulla: Sergej Shvetsov segna allo scadere il 2-0.

Non avrei mai voluto segnare quel gol

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D’istinto, quelli che stanno uscendo si voltano. Dal tunnel claustrofobico cercano di rientrare ma la polizia fa muro ostinato, odioso, fatale. Le scale collassano, è un massacro. Le ambulanze tardano e i poliziotti guardano. Ad oggi, il  numero di morti non è un dato certo: trecento forse, chi c’era ne ha visti tanti da non contarne.

Le salme vengono sparpagliate per depistare la ricostruzione dei fatti: negli anni a venire, ad ottobre in quel campo non si sarebbe più giocato. Per lo stato del manto erboso, diranno quelli preposti ad evitare pellegrinaggi. L’indagine bugiarda coprirà l’imbarazzo del potere: un incidente, la fatalità, il caso. La stampa tacque e l’Occidente -un classico- si volta dall’altra parte.

Ancor oggi, la più grande tragedia legata al calcio è sconosciuta ai più. Come siano andate veramente le cose è esercizio d’immaginazione, chè la Cortina è resistita un’epoca mica a caso. E se provate a chiedere a loro, ai Ribelli dello Spartak, nemmeno vi diranno granchè. Parleranno gli occhi, lastre di ghiaccio trasparenti che tuttavia -in controluce- riflettono verità. Amara quanto vuoi eppure inarrestabile: tu la ignori e Lei ti viene a cercare. Facendosi strada in un silenzio del quale si distingue esattamente il rumore.

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La libertà ha un costo: è carissimo e quando lo paghi lo fai per chi verrà. Più che alla riconoscenza, indurrei al tributo. Non ne conosco uno migliore della Memoria.

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