Approfondimenti
EN PLEIN AIR – Da Roberto Baggio a Monet, di tanto così

Da Roberto Baggio a Monet, di tanto così.
Impression, soleil levant.
È il gioco della rifrazione, quel che appare raramente avviene. Si tratta della trasposizione su tela dei riflessi di Saint-Denis: è il minuto numero sessantasette, un avvicendamento è alle porte. Sull’impianto parigino ventilano, chiare e fresche, le nuvole dell’estate ‘98: l’ora più dolce prima d’essere ammazzati.
Correva la stagione dei dualismi, delle ambiguità tecnico-tattiche, delle fragilità artistiche di un’Italia ancora sofferente. Sofferente per quell’urlo strozzato in gola nel torrido inferno di Pasadena, una trasversale nel destino: da Baggio a Di Biagio, passando per quel sordo rintocco che ancora riscuote il suo tributo, fra risvegli notturni ed occhi sgranati.
Era, senz’altro, l’estate di Roberto Baggio e Del Piero, i due volti dell’estetismo: tanto sfavillanti, quanto inconciliabili. Rampe di lancio e talenti da copertina, instabilità delle cartilagini e viali del tramonto da rispedire al mittente.

Fonte foto: Wikipedia
L’estate mormorava, nel contesto di una guerra fratricida: fra l’attesa delle trincee e il ronzar dei tacchetti.
Si rivissero atmosfere da Grande Guerra, in effetti, sulla strada diretta al trofeo ideato da Silvio Gazzaniga.

Fonte foto: Wikipedia
Elmetti riversi sul prato, entrate al limite della Seconda Convenzione dell’Aja e granate pronte ad esplodere. Fu uno scontro di classe e fra classi, fra generazioni e di generazioni: da Blanc a Maldini, da Deschamps a Di Livio.
Fra le rive della Senna e della Marna – senza taxi arruolabili al trasporto munizioni e soldati, né civili da proteggere – andò in scena la più emblematica delle fughe verso il mare – colpo su colpo – impregnata di folate offensive ed entrate ruvide. Quel pomeriggio lo Stade de France infranse sul nascere ogni stereotipo, non fu spocchia contro arte di arrangiarsi: fu guerra e basta. Fotogrammi, ritmi e scorrettezze di un calcio traslocato in soffitta. Ad oggi, di quei centoventi minuti, se ne giocherebbero sì e no cinquantacinque. Massimo sessanta.
Il giro di lancetta numero centouno, poi, rappresentò il crinale del sogno. L’estrema frammentazione di un sospiro: un tracciante di Albertini, un taglio di Baggio alle spalle di Desailly, una volée che sfuma all’orizzonte dei legni. Le narici sbuffano all’unisono ma emettono un tono diverso: di imprecazione per gli italiani, di sollievo per i francesi.
Quanto resta di quell’illusione è la fenomenologia di un istante, l’ossessiva ricerca dell’angolazione ideale attraverso cui imprimere al soggetto il versante perfetto. Il momento esatto in cui la luce svela connotati nascosti e, fino a quel momento, di portata irrisoria. La realtà, tuttavia, esula dai tratti impressionisti, quel che rimane è ciclica e mutevole sensazione.
Così scriveva Monet, era il 7 ottobre 1890:
“Riprendo molto, mi accanisco a ottenere effetti diversi, ma in questa stagione il sole declina così in fretta che non riesco a seguirlo. Lavoro con una lentezza che mi fa disperare, ma più continuo, più noto che bisogna lavorare molto per riuscire a restituire ciò che si cerca: l’istantaneità. Soprattutto l’involucro, la stessa luce diffusa dappertutto e le cose ottenute d’un solo getto mi disgustano sempre di più”.
Chiedetelo, appunto, a Claude Monet e all’ossessione che lo accompagnò per tutta la vita: riprodurre in serie. Ancor meglio chiederlo alla Cattedrale di Rouen, alle ninfee, ai covoni di fieno e al porto di Le Havre. A tutto quello che, violentato dall’iride dell’artista, ha svelato all’uomo – ancor prima del Cinematographe Lumière – l’ebbrezza del movimento. Tutto quello che – ad ogni ora del giorno, in ogni stagione dell’anno, sgranando il rosario di tutte le condizioni meteorologiche – esprime l’incedere di un tempo che influenza il circostante.

Fonte: Wikipedia Commons
Chiedetelo, allora, a Roberto Baggio e a quella sorte così avara che, dalla California all’Île-de-France, condusse le redini d’ogni maledizione. Questione di centimetri, ma forse no. La variabilità è ricerca, l’involucro – Monet dixit – è disgustosa appendice, il tratto è espressione maniacale dell’inconcludenza umana.
Quale differenza intercorre, in conclusione, tra un rigore che si infrange sulla traversa – schizzando verso un cielo già verdeoro – e una conclusione volante che sfiora l’incrocio per poi perdersi sul fondo? Soltanto la biomeccanica articolare dell’esecuzione: ché l’intenzione è la stessa, la resa pure, l’impressione neanche a dirlo.
“Di tanto così”, perciò, non è di certo la frase che sintetizza un rimpianto. È arte: fuggevole, pura e inestimabile.
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