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Morte Rincon, le luci in campo e le ombre del narcotraffico nella vita di “El Coloso”

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“Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore fra due insondabili silenzi”. Lo scriveva Isabel Allende in “Paula” 27 anni fa. E pensando a 27 anni fa, nella stagione ‘94/’95, il nome di Rincon diventa ancora oggi evocativo in Italia. Di tante parole e, per i tifosi del Napoli, di emozioni e speranze. Colombiano, mezzala dalle bellissime aspettative, il gol alla Germania nel Mondiale ’90 e gli affari narcotraffico, le parole sintesi della sua vita tra gloria e polvere. Boškov, Taglialatela, Andrè Cruz e Pecchia le emozioni dei momenti, abbinate ai nomi più noti e incisivi dell’epoca, passando per i suoi compagni della nazionale Higuita, Valderrama e Asprilla. Soprannominato “El Coloso” in Colombia con il suo quasi metro e novanta di altezza, gli oltre 80 kg di peso e il fisico scultoreo. Appellativo che, in Italia, passò poco, perché lo si preferì chiamare in modo poco elegante (che si può ben immaginare) come sfottò dalle tifoserie, laddove il cognome “aiutava” col gioco di parole, diciamo.

LA PARABOLA DI FREDDY. I tifosi del Napoli con lui sognavano un salto di qualità, ma restarono delusi e spiazzati dalle premesse iniziali (7 gol in 27 presenze in campionato: non pochi per un primo anno, che restò l’unico con la maglia partenopea). E come tutti gli amori che finiscono o le promesse tradite, chiaramente poi i rapporti possono incrinarsi e crepe aprirsi. Rincon non prese benissimo né di essere preso di mira, né di sentirsi come isolato dal gruppo e non compreso dall’intera città. Visse malissimo interiormente e in solitudine realmente quei mesi, tant’è che lo manifestò in una pubblica conferenza stampa. E che con lui, un marcantonio che parte da dietro per trafiggere con inserimenti massicci e rapidi le porte altrui, si volesse sognare in grande ne è prova anche che il Real Madrid, l’anno dopo, lo prese. Tre i Mondiali disputati con la sua nazionale, e al termine dell’ultimo, negli Stati Uniti, approdò all’ombra del Vesuvio dai brasiliani del Palmeiras di proprietà di Tanzi, acquistato dal club azzurro per sostituire Paolo Di Canio, che aveva trovato casa nel Milan. Giunse settimo quell’anno, il Napoli, dopo un avvio non esaltante (Boskov subentrò in panchina a Guerini dopo 6 giornate), non riuscendo però a centrare la zona Uefa (tra l’altro, proprio in quell’anno fu la sua ultima volta nelle competizioni europee fino al 2008). Per Rincon quella stagione, inseguito da esaltanti alti e rincorso da periodi bassi, non andò benissimo e fu l’inizio della parabola discendente, che gli farà toccare il punto più basso e disonorevole della sua vita nell’accusa di far parte del clan del boss narcotrafficante Montano (arrestato in Brasile nel 2006 e condannato a 9 anni), come prestanome di diverse proprietà acquistate con soldi sporchi.

LA ZONA D’OMBRA DEL NARCOTRAFFICO. Accusa questa, insieme a quella per traffico di droga, dalla quale venne assolto, ma molti interrogativi di stretta connivenza con i narcotrafficanti restano e i dubbi rimangono. Gli investigatori non sono mai riusciti del tutto a chiarirli. Basti pensare che i narcotrafficanti dell’epoca, da Bogotà a Calì, erano anche proprietari delle società di calcio ed erano letteralmente adorati dalla maggior parte del popolo colombiano, che li sentiva più vicini ai loro bisogni e necessità rispetto allo Stato. Non ce l’ha fatta stanotte Rincon, che in una di quelle squadre colombiane finanziate dal traffico di droga (l’America di Calì) aveva militato. Dopo il terribile impatto autostradale con un autobus di qualche giorno fa, . E, soprattutto in queste giornate in cui la paura ancora più grande di una guerra in casa, è quella di abituarci e di assuefarci all’orrore e alle ingiustizie, le vite non vanno dimenticate. Comprese quelle storie di illegalità, sangue e lacrime, di complicità con la malavita all’ordine del giorno nella Colombia degli anni ’90 come altrove tutt’oggi, di favoreggiamento in quella zona d’ombra dove, per quieto vivere o per opportunismo, il malaffare fa parte della quotidianità. Nulla va scordato o tralasciato. Ci viene incontro nuovamente la scrittura dell’Allende in questo: “La morte non esiste, figlia. La gente muore solo quando viene dimenticata”. E di nessuna vicenda bisogna mai dimenticare, né omettere niente. Altrimenti si rischia poi di ritrovarsi in un bel paradosso dagli effetti opposti: la beatificazione dei delinquenti e la scomunica degli onesti che non si sono mai piegati a certe dinamiche. Non è tuttora chiarissimo da che parte stesse Rincon. E anche riguardo al campo, c’è chi ancora giura di non aver ancora capito, 27 anni dopo, quale fosse il suo ruolo. Certo è che il suo arrivo a Napoli, pieno di così tante aspettative, fece sognare. E non poco. Luci e ombre, appunto. Ombre nelle luci.

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P.S. – Perché intitolare una rubrica “Autogrill”? Immaginate di trascorrere là un’intera giornata: in 24 ore quante storie vedreste e ascoltereste? Quante persone incontrereste e osservereste? Quanti gesti, parole e situazioni, che rimandano a luoghi vissuti da tanti altri volti? E’ quello che si proporrà di fare questa rubrica: approfondire, dal campo o fuori dal campo, delle storie che si conoscono e rilanciare delle storie che si conoscono poco. Raccogliere respiri di vita, attimi di condivisione, istanti dove cogliere l’essenziale nei particolari, briciole di esistenze in un luogo sì preciso ma di passaggio. Come in un autogrill, appunto, un luogo in cui tutti passano per un minuto o per un’ora, un luogo dove s’incrociano casualmente esistenze, incontri ed emozioni….

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