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CALCIO & BUSINESS – Il gioco del trono del gotha del calcio europeo

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Nuovo anno, stessa storia: ad una settimana di distanza la rabbia per la “saga delle italiane in Europa” non cessa di esistere e la consolazione del passaggio del turno della Roma in Conference di certo non allevia quella ch’è tutt’ora una grossa ferita per il calcio italiano.

Il “gioco del trono del gotha del calcio europeo”, come lo chiamerebbe George R.R. Martin, non vede vincitore una squadra italiana dal 2010: troppo tempo, troppe occasioni buttate.

Sebbene poi i tifosi italiani siano alla ricerca, come dei Bartheon qualunque, di giustificare la propria “casata” e screditare il lavoro fatto dalle “casate straniere”, la verità è che le radici di questo copione che si ripete (la smetterò a breve con le citazioni al trono di spade, lo prometto) sono da ricercare in un ventennio di cecità e delle presidenze delle singole società e della Lega Calcio.

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All’evoluzione del campionato inglese in quella che oggi conosciamo come Premier League (20 febbraio 1992, dopo che le 22 squadre affiliate alla First Division, l’allora massimo campionato inglese, decisero di uscire dalla Football League per ragioni economiche) e agli investimenti in infrastrutture e settori giovanili di società tedesche, spagnole, olandesi e francesi l’Italia ancora una volta ha risposto “Not Today”.

Siamo diventati campioni del mondo di rendering di progetti di stadi mai realizzati, due su tutti l’Olimpico di Roma (che, per quanto si possa negare, è stato il motivo della vendita della società da parte di Pallotta) e il Giuseppe Meazza di Milano (chissà, il comune sembra essere ottimista questa volta, io finché non lo vedrò funzionante non ci crederò).

Siamo diventati la prima meta scelta tra i calciatori a fine carriera, un luogo dove andare a “divertirsi” e gioire delle ricchezze guadagnate (altrove): solo in questo campionato possiamo annoverare (fra gli altri) giocatori del calibro di Ribery alla Salernitana, Nani al Venezia, Ibrahimovic al Milan (…) siamo sicuri che 5/6 anni fa avrebbero fatto scelte analoghe? Che avrebbero pensato di venire in una squadra di Serie A per giocare ad alti livelli?

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Alcuni di voi ora diranno: De Ligt, Osimhen, Lukaku, Vlahovic, Barella e molti altri hanno scelto di approdare (o restare) nel campionato italiano! Verissimo, avete completamente ragione! Peccato però che molti utilizzino la Serie A come un trampolino di lancio, una vetrina, per poi andare in Premier League o in un altro dei top campionati.

Lukaku, uno su tutti, non c’ha pensato due volte prima di firmare per il Chelsea; andando più indietro con gli anni poi l’elenco di top player che sono andati a rafforzare le compagini straniere si fa foltissimo. Ma ridurre a questo il motivo della mediocrità delle italiane sarebbe pressapochistico e non voglio fare ciò con questo articolo.

Il motivo principe della situazione che si protrae dalla vittoria del triplete da parte dell’Inter (ma, secondo la mia visione, da molto più tempo) è duplice: la mancanza di progettualità e di visione dei presidenti delle squadre italiane, che vedono il calcio (ancora) come un business familiare e non riescono a costruire un progetto che sia “vendibile” (basti pensare alla poca cura della comunicazione e del branding di alcune società “top” italiane) e, secondo ma non per importanza, il motivo per il quale è impossibile fare impresa in Italia: la burocrazia italiana.

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Non a caso, il 58% degli operatori finanziari internazionali ritiene che la prima causa del mancato investimento in Italia sia il carico normativo e burocratico (AIBE 2014): non pensate che tutto ciò non si rifletta nel mondo del calcio.

Ho vent’anni e sogno di fare impresa, per cui questo argomento mi sta molto a cuore e più volte mi sono informato a riguardo, eccovi alcune analisi di Assolombarda:

“Il costo della burocrazia è stimato variare dai 108 mila euro per una piccola impresa ai 710 mila euro per un’azienda di medie dimensioni. In termini di tempo, gli adempimenti burocratici “costano” alle piccole e medie imprese, rispettivamente, tra i 45 e i 190 giorni da parte di un collaboratore dedicato”.

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“Le analisi condotte mettono bene in evidenza le difficoltà delle nostre imprese di fronte a una burocrazia lenta e complessa. La questione non è tanto quella di un eccessivo carico burocratico per sé, quanto delle complicazioni che ne derivano: confusione tra norme, discrezionalità nella loro applicazione, disomogeneità dei procedimenti, lunghezza dei tempi di gestione delle procedure, difficoltà di comunicazione tra imprese e PA”. A tutto ciò vanno poi aggiunti gli strascichi di due anni di pandemia.

Questa disamina non la sto facendo io, semplice studente d’economia, ma il centro studi di Assolombarda; analisi tra l’altro abbracciata da uno degli ultimi investitori entrati a far parte del calcio italiano, Rocco Commisso che in un’intervista al Financial Times ha dichiarato: “Il calcio è una stronzata” irritato per i problemi avuti nel progetto di rinnovamento dello stadio Franchi di Firenze.

E per calcio il Presidente della Fiorentina intente quello italiano. Nella lunga intervista torna spesso, più o meno direttamente, sul sistema calcio italiano con toni sempre più dispregiativi.

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Anche il Financial Times scrive che “la questione (questione stadio di Commisso, n.d.r.) è simbolica, una diapositiva del calcio italiano. Tre decenni fa, i suoi migliori club hanno ospitato i più grandi giocatori e allenatori del mondo, aiutandoli a dominare il calcio europeo. Ma la qualità e il fascino della Serie A sono costantemente rimasti indietro rispetto a Inghilterra, Spagna e Germania, dove le squadre migliori giocano in nuove strutture in vetro e acciaio, davanti a case gremite, guadagnando anche di più dai contratti sui diritti televisivi”.

Il calcio italiano è lo specchio del paese italiano: un paese che guarda al passato, che costringe i giovani a scappare (ed i calciatori non sono da meno), che ritrova negli altri la causa dei suoi mali e che, al futuro, risponde sempre “Not Today”.

Siamo passati dall’essere la culla del rinascimento, il luogo in cui tutti gli artisti facevano a gara per arrivare, all’essere un paese con una popolazione in declino, con il più alto numero di NEET in Europa (secondi soltanto alla Grecia) ed in cui i giovani (laureati e altamente specializzati) contano i giorni prima di poter emigrare, verso un paese che gli dia possibilità d’innovare, creare e prosperare.

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