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NUMERO 14 – La battaglia di Belgrado – Introduzione

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Ogni regola ha la sua eccezione. Sempre e comunque.
E, quindi, anche questa rubrica deve fare i conti con il compito di rimanere sempre fedele all’idea che l’ha originata.
A volte ci si riesce. Altre volte meno.
Il pensiero va subito a chi ispirato queste pagine, colui che ha fatto della maglia numero 14 un simbolo, Johan Cruyff.
Chi ci ha seguito fin dall’inizio saprà bene che lo stesso Cruyff ha dovuto adeguarsi talvolta alle regole, rinunciando alla sua amata 14 per indossare un più convenzionale numero 9.
Ma lo ha fatto a modo suo, infilandosi sotto la maglia del centravanti un’altra con il suo talismanico numero.
E’ riuscito a sgusciare in dribbling tra le convenzioni, liberandosene con una invenzione delle sue per andare oltre.
Esattamente quello che si ha intenzione di fare adesso.
Nessuna finta. Nessun trucco.
Solo il desiderio di ribadire l’idea cardine di “Numero 14” e, nel contempo, arricchirla di nuove sfumature.
Mi autocito dicendo che in questa rubrica avrebbero trovato spazio “vicende poco note di personaggi famosi” ma anche “storie non raccontate a sufficienza”.
E’ il caso del prossimo articolo, anzi, della prossima serie di articoli.
Una trilogia per raccontare di una partita infinita, giocata in due riprese nel Novembre 1988 allo stadio Marakana di Belgrado dal Milan di Arrigo Sacchi.
Quella partita merita la parziale deroga all’idea base di questa rubrica?
E merita che le si dedichino ben tre pezzi?
A parere di chi scrive la risposta è un “si” in entrambi i casi.
C’è la voglia di scrivere di quell’incontro perché, pur essendo celeberrimo, troppo spesso lo si ricorda solo come la “partita interrotta dalla nebbia”.
Riduttivo, direi. Troppo, troppo riduttivo.
Per tacere poi delle facili ironie sulla fortuna toccata al Milan con la scoperta di un formidabile quanto inaspettato alleato, una cortina di nebbia talmente spessa da impedire di vedere la sagoma di un’altra persona a due passi di distanza.
Ora, che la nebbia abbia scelto di manifestarsi sul campo del Marakana proprio nel momento in cui la squadra rossonera fosse in estrema difficoltà, è senza dubbio un caso.
Un caso fortuito, più che fortunato. Un caso e basta.
Di sicuro è che, a quel punto, le condizioni climatiche non consentivano più il regolare svolgimento della partita.
Tanto è vero che gli eventi sul campo di gioco, compreso il gol di Savicevic per l’uno a zero in favore della Stella Rossa, erano sfuggiti alla visuale degli spettatori.
Pertanto, regolamento alla mano, l’arbitro aveva il preciso dovere di interrompere e di rinviare al giorno successivo, partendo dal primo minuto e sullo zero a zero.
E tutto questo sarebbe avvenuto anche se il Milan, in quel momento, fosse stato in vantaggio di tre reti.
Ricordarlo è un atto di sportività, oltre che di onestà intellettuale.
Si riprese il giorno dopo, quindi, a distanza di neanche 24 ore dal match precedente, per andare avanti dopo il novantesimo minuto con i tempi supplementari e i tiri dal dischetto.
Questo risponde alla seconda domanda.
Gli avvenimenti della partita sono stati tali e tanti che è necessario dividerli in una sequenza di tre pezzi per analizzarli con ordine e razionalità.
Si parte incentrando il primo su Roberto Donadoni.
Protagonista dell’incontro per quasi tutto il primo tempo, con la perla dell’assist a Van Basten per il gol del vantaggio rossonero, viene poi brutalmente estromesso dalla partita da un intervento scomposto di un avversario.
Si teme per la sua vita. Solo il pronto intervento dei medici lo salva.
E il ricordo della tremenda scarica dei fischi all’annuncio dello stadio che il giocatore del Milan era da considerarsi fuori pericolo ancora fa fremere di indignazione.
Il suo posto viene preso da Ruud Gullit, il protagonista del secondo pezzo.
Non avrebbe dovuto neanche giocarla quella partita.
E’ reduce da un infortunio, ma scende lo stesso in campo.
Lo fa per la squadra in difficoltà e contro la meschinità di chi si abbasserebbe a qualsiasi cosa pur di vincere.
Anche speculare su un incidente di gioco che poteva finire in tragedia.
Non può essere al massimo della forma ma non si tira indietro di fronte a nulla, sfiora anche il gol in un paio di occasioni e da un contributo decisivo alla vittoria.
Che viene controfirmata da Frank Rijkaard, primo attore del terzo pezzo.
Valente giocatore, anzi polivalente.
Il giorno prima combatteva impavido al centro della difesa.
Il giorno dopo si muove con disinvoltura al centro del campo.
E’ uno su cui si può sempre contare.
E lo dimostra tirando e segnando il rigore decisivo.
C’è molto altro da raccontare di quell’incontro.
C’è il gladiatorio carisma di Baresi. E’ lucido e vigile nell’assistere i suoi giovani compagni, dirige la difesa senza sbagliare un intervento e trasforma da par suo il primo rigore.
C’è la perduta innocenza del giovane Maldini. Gioca con le lacrime agli occhi dopo aver assistito al tremendo infortunio di Donadoni.
C’è l’immensa umanità di Stoijkovic. Il capitano della Stella Rossa si sente in dovere di tradurre le parole dell’annuncio dello speaker slavo all’affranto Maldini, per fargli sapere che il suo compagno di squadra è fuori pericolo.
C’è la classe ad intermittenza di Savicevic. E’ autore del fantastico assist a Stoijkovic per il gol del pareggio ma anche di un rigore sbagliato e mille pause durante la partita.
C’è il talento bipolare di Van Basten. Firma il gol del vantaggio del Milan con uno stacco di testa imperioso, fugge sconvolto dal campo dopo l’infortunio-shock di Donadoni e, alla fine, realizza con fredda eleganza il suo rigore della sequenza finale.
C’è il tremore del giovane Cappellini. Imberbe minorenne, viene investito della responsabilità di trasformare il rigore decisivo prima di venire provvidenzialmente sostituito da Rijkaard.
C’è la sensazione di aver combattuto una battaglia contro tutto e contro tutti e di avercela comunque fatta.
C’è l’orgoglio di aver sconfitto il clima intimidatorio dello stadio militarizzato.
C’è l’adrenalina di aver ammutolito di colpo più di centomila persone.
C’è la consapevolezza che dopo essere sopravvissuti a questa esperienza, si può legittimamente aspirare ad arrivare alla finale della Coppa dei Campioni.
Per tutto questo, chi scrive ritiene che sia un percorso nella memoria che meriti di essere fatto. E di essere fatto in questo modo.
Buon viaggio a chiunque abbia voglia di farlo.




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