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ZONA CESARINI – La carbonara fredda

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Una sera di un milione di anni fa me ne vado a cena a Testaccio, in una nota “osteriola” locale. Ci sediamo fuori e, mentre consultiamo il menù, noto subito, dentro, una figura di spalle, a un tavolino da due con la moglie: anche se di spalle, è inconfondibile la silhouette “leonina” di Gigi Proietti.

Non è stato mai mio costume andare da personaggi famosi a salutare o chiedere autografi e anche quella sera, nonostante avessi un monumento d’Italia e di romanità, non fu diverso. Ma l’occhio andava continuamente al vetro e se devo andare a memoria, ipotizzando che si sia restati seduti un paio d’ore, costante è stato il “pellegrinaggio” di camerieri, commensali e passanti che lo spizzavano da fuori. Gigi ad ognuno ha riservato un lieve alzarsi dalla sedia, un impercettibile inchino di ringraziamento e il suo sorriso “piacionesco, che poi vor dì acchiappesco” per usare parole sue. Era un continuo, anche all’arrivo della sua carbonara. Quando ci alzammo da tavola per andarcene, la carbonara era ancora là, appena spizzicata, fredda e Gigi aveva ancora sorrisi per tutti, ricordava un pò la sua famosa telefonata, quando il finto interlocutore non gli permetteva di inserirsi nella conversazione.

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Bell’aneddoto del cazzo, penserete. Chissà, a me ha colpito.

Almeno tre volte da ragazzino vidi dal vivo “A me gli occhi, please“, il suo spettacolo più famoso, vero carrozzone da circo di personaggi, per un teatro, per un tipo di One Man Show che oggi non esiste più.

Proietti, mancato avvocato, era non solo attore, ma vero e proprio uomo di cultura: a teatro lavorò con Magni, Carmelo Bene, Gassman; recitò Socrate, Aristofane, Brecht, Cyrano e Kean; il suo grande amore per Shakespeare lo porta a dirigere il Globe di Roma (dopo il Brancaccio) portando numeri straordinari in quell’insolita arena, insolita per i tempi moderni.

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Ma Gigi era altro, fosse stato per questo sarebbe stato lodato, ma se è stato amato era per altro. “Figlio” di Petrolini ne porta con sè l’eredità artistica, ma soprattutto la popolanità. Istrionico come pochi ma mai ingombrante, senza alcuna prosopopea o snobismo culturale, senza sermoni o “pipponi” paternalistici ma pronto a sdrammatizzare qualsiasi situazione.

Rubo questa immagine a Giuseppe Falcao, ma spero mi perdoni perchè troppo bella. Così autoironico e dissacrante poteva essere solo tifoso della Roma, ma anche qui sempre discreto, raramente è salito sul carro delle vittorie, ma si palesava più nelle situazioni “drammatiche” o difficili a fare una battuta, a stemperare le delusioni. Eppure nei suoi camerini non poteva mai mancare una tv per seguire la Maggica: “le prove aspettano, gioca ‘a Roma“. “Sotto sotto confesso c’è sempre la speranza che un giorno possa dire “Rieccomi qui” – disse all’addio di Totti – “una presenza ideale che continua a esserci sempre, ma che di fatto non ci sta più“.

Viveva il calcio con sarcasmo e ironia, anche dopo pesanti sconfitte. “Meglio stà in silenzio dateme retta. Che batosta! Mi piacerebbe che mi dicessero che fosse na fiction”, disse in seguito al ko contro il Bayern. Classe mantenuta anche nelle esultanze. “È più il piacere di vincere in questa maniera che la voglia di fare…siamo satolli, ecco“, aveva dichiarato dopo un derby vinto 4-1, ironizzando poi sul presidente della Lazio: “Io sono pro Lotito, guai a chi ce lo tocca“.

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Proiètti, con la e aperta, come da corretta dizione, quella che lo porta al doppiaggio, famosissime le performance sul genio di Aladdin e su Gandalf, ma pochi ricordano gli “scippi” ad Amendola su De Niro in Casinò, ma soprattutto su Stallone, quando sua fu la voce nel primo Rocky. Coincidenza curiosa, doppiò il dragone di Dragonheart, in originale fatto da Sean Connery che tristemente lo ha preceduto nella morte di un giorno.

Successi televisivi tra spettacoli e fiction (Maresciallo Rocca su tutte) ma il cinema, pur avendo lavorato con grandi registi (Scola, Avati, Lattuada, persino Altman) non gli riserverà grandi onori se non per il suo “Mandrake” in Febbre da Cavallo.

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Ecco, questo era Proietti, capace di far capolavoro con le cose semplici come rendere immortale un film che solo lui poteva consegnare alla storia, di farti sorridere interpretando anche solo delle barzellette. Le sue più famose sono anche quelle, nel contenuto, più “stupidine”, ma le pantagrueliche declamazioni, le pause, le immedesimazioni rendono uniche “il cavaliere nero”, “l’orango” e “18”, tanto per dirne alcune. Solo Gigi poteva rendere immortali, coi suoi cambi di tono, cinque minuti di “Ne me romp er ca”, gigionesca presa in giro dei francesismi alla Brel.

Più grande di tutti per distacco eppure così vicino a tutti. L’aneddoto citato lo vedo un pò simbolico e quando è morto quella mattina ho pensato a molte cose. Intanto, in barba a sto virus lui, ottantenne, lo ha fregato, morendo a causa del suo core grosso, rubando allo stesso le aperture dei TG e le prime pagine dei giornali, dopo otto mesi in cui siamo stati “violentati” da numeri e profezie nefaste (Tiè avrà pensato).

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Si è spento con grande colpo di scena la mattina del suo compleanno e me lo immagino a dire:

“Eravate tutti pronti a festeggià l’ottantanni mia, ma v’ho fregati. Mò ve costringo ad onorare tutta la vita mia. Ve lascio giù un pò de amici, Pietro Ammicca, i 7 Re de Roma, Toto e la saùna cor Conte Duval, pe dinne pochi, e me siedo qua, mentre sete distratti, amici miei, popolo mio e tu, Roma, amore grande mio, stasera “ne me romp er ca”… hai visto mai che pe la festa mia, quanno ariva la carbonara, me la riesco a magnà calda”.

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