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La tragedia di Piazza San Carlo, quando anche il bianco si tinse di nero
Il salotto di Torino, piazza San Carlo. Per molti, la più bella e importante piazza torinese. Invidia di molti: insieme alla Mole, al Museo Egizio, al Palazzo Reale tende una mano alla borghese piacevolezza sabauda. Luogo persino di artistici contrasti: di fronte alle barocche chiese gemelle, nel corso degli anni hanno fatto capolino il Caffè San Carlo ed il Caffè Torino; roba da intellettuali, circoli culturali e ritrovi di artisti e mecenati. Ma anche luogo di tragedia.
03/06/17: PIAZZA SAN CARLO GREMITA DI BIANCO E DI NERO
Quello, dicevano in molti, erano l’anno buono. I quarti di finale, la vittoria schiacciante contro il Barcellona, aveva fatto sperare molti nel meglio: la squadra c’era, tanto forte quanto motivata. Sarebbe bastato allungare una mano, per raggiungere un orecchio della Coppa. Per l’occasione, la piazza fu adornata da un enorme maxi-schermo: l’occasione era di quelle importanti, le persone avrebbero partecipato in massa. Così fu, del resto: poco prima del match, la paventata massa arrivò; chi in bianconero, chi in borghese, chi per lavoro e chi solo per il gusto di vedere, insieme a tante altre persone, una finale di Champions League. Bandiere, facce dipinte, sorrisi e selfie vari: l’adrenalina, palpabile, era sfogata anche così.
La partita finì 4-1, e non per la Juventus. Troppo largo, il vantaggio del Real Madrid sui bianconeri; troppo forte l’euforia dei madrileni, diametralmente opposta allo scoramento sabaudo. Nemmeno il goal di Mario Mandzukic, forse l’unico guerriero bianconero sul campo inglese, riuscì a smuovere le coscienze dei compagni. La partita finì al 90′, poco dopo il famoso goal di Marco Asensio. Finì al 90′ per tutti. Ma non a Piazza San Carlo.
UN URLO, LA CALCA: IL BIANCO SI TINGE DI NERO
Tantissime persone assiepate in un sol luogo è un evento comune, sopratutto in una grande città come Torino: feste, concerti, manifestazioni all’ordine del giorno. Ma quella specifica sera, il tre giugno del 2017, qualcosa non funzionò.
Di un attacco terroristico, si parlò all’inizio: del resto, un’ora più tardi ci fu l’attento al Tower Bridge; una rapina, si venne a scoprire poi. Qualche facinoroso, in mezzo alla calca, era riuscito a far passare degli spray al peperoncino; si era fatto strada utilizzando quelli, nel frattempo rubando oggetti di valore alle persone ignare e troppo prese a respirare i fumi dello spray. Qualcuno urlò, qualcun altro spinse. L’idea del pericolo imminente si sparse a macchia d’olio, in tutta san Carlo. La massa divenne ressa, la gente cercava in ogni modo di mettersi al riparo da un nemico invisibile, di cui aveva solo sentito parlare – o meglio, gridare. Millecinquecento furono feriti, nella fiumana di gente che si riversò in ogni scampolo di riparo; tre persone non ce la fecero.
Per Erika, trentotto anni, non ci fu scampo; fu l’inferno, invece, per Marisa, che di anni ne aveva sessantaquattro: rimasta tetraplegica per diciotto mesi e infine spirata; i figli, oggi, hanno aperto una associazione benefica voluta proprio dalla donna, rivolta al reparto di neurologia infantile dell’ospedale torinese Regina Margherita. Ha combattuto anche Anthony, contro un destino beffardo che ha deciso di colpirlo proprio quando nessuno se l’aspettava: prima l’amputazione di un piede, poi il decesso dopo due anni e mezzo di lotta.
Biasimare chi ha dato inizio a tutto, oggi, non ha importanza. Di loro se ne occuperà la legge, che ha già preso il gruppo. Resta però il dolore, sentito da tutti, per una tragedia che non sarebbe potuta e dovuta accadere. In una serata dove si sarebbe dovuto parlare di calcio, ridere, tifare. Piangere per la squadra, e non per le persone.