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Su Michael Jordan, e perché non ha mai smesso di ballare

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Ho sempre rispettato chi, diversamente da me, non prova emozioni per il pallone da calcio. Molto semplicemente, li comprendo, ma non li capisco. E non mi si può venire ad addurre motivazioni del tipo “sono solo soldi che girano”. Bullshit, direbbero sulle soglie dell’Empire State Building.

E proprio di un bull parleremo oggi, ma tutt’altro che shit.

Sempre con dei palloni abbiamo a che fare. Gonfiati? Può darsi, a detta di alcuni.

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Stavolta la sfera è arancione, di erbetta nemmeno l’ombra, solo parquet, che a camminarci sopra senti le suole delle scarpe urlare come le anime in un girone dantesco.

Dimenticatevi gli ottantamila spettatori di San Siro: qui la questione si fa molto più intima. Un concerto per pochi. I più fortunati riescono addirittura ad assistere seduti poggiando i piedi sul legno lucido.

Chi è di scena, ve lo dico subito.

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Numero 45 prima e 23 poi, nato a New York ma cresciuto nel North Carolina.

Di lui conservo uno dei miei primissimi ricordi, datato anno 1997. Papà che viene a prendermi a scuola e, sistemandomi il grembiule, mi dice che a casa c’è una sorpresa di quelle grosse e indimenticabili.

Ad aspettarmi in salone c’era la videocassetta di Space Jam: immaginatevi la felicità di una bambina di sei anni nel ricevere una videocassetta dei Looney Tunes. La speranza, dopo aver consumato il tasto rewind, era quella di diventare, da grande, bella quanto Lola Bunny, e brava quanto Michael Jordan.

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Perché, nell’immaginario collettivo, ancora più alimentato da quella pellicola così originale, come Michael Jordan non c’era nessuno.

E qui, faccio un indicibile mea culpa, per non aver approfondito negli anni la questione pallacanestro.

Perché questa ex bambina di sei anni ne ha attesi altri ventitrè prima che Netflix e ESPN le entrassero in casa per darle la certezza matematica che i rettangoli da gioco su cui emozionarsi non sono soltanto verdi.

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The Last Dance. Che fino a qualche mese fa restava per me parte di uno dei titoli cinematografici più amati dalle adolescenti e dalle ex adolescenti come me, una storia d’amore e di danza che ancora oggi, se ci penso, mi vengono le lacrime agli occhi.

Ma del resto, all’ultimo ballo di Michael Jordan cosa manca di tutto ciò? Sostanzialmente nulla.

Dieci episodi da più o meno un’ora ciascuno, un continuo flashback tra l’ultima stagione di MJ ai Chicago Bulls, e la sua vita, quella di prima, prima che Mike diventasse Air Jordan.

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Il primo, il secondo three-peat con i Bulls, e tutte, ma proprio tutte le volte il cui Jordan è stato premiato come MVP delle finali. Sei volte. Tante quante le finali vinte. Beato lui.

Nel vederlo giocare soffro della sindrome da Cristiano Ronaldo. La sindrome è quella del giocatore antipatico e borioso, ma che riesce a mettere a segno trentanove punti in quarantaquattro minuti. Più o meno un minuto è ciò che serve a Michael Jordan per lanciare la palla nel canestro con la stessa facilità con cui io mi metto a tavola ogni giorno.

Borioso davvero? Non credo. Quando sarete arrivati a quell’episodio, venitemi a dire come vi sono salite le lacrime agli occhi nel vedere MJ disperarsi dopo l’ennesimo trofeo. Perché suo padre non era con lui. Brutalmente ucciso, strappato dal fianco di Michael che aveva la certezza, in ogni sua partita, di potersi girare e trovarlo lì. Un dolore così grande da spingerlo a lasciare la pallacanestro per dedicarsi al baseball, per dimostrare a se stesso di saper fare altro, per dimostrare a chi lo aveva lasciato di potersi congedare dal suo amore più grande per onorarne la memoria.

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Ma Michael Jordan era tutto, fuorché un giocatore di baseball, e tornò sul parquet, con la sua squadra.

E quello fu uno dei pochi casi in cui ritirarsi non ne valeva la pena. Perché Jordan aveva ancora tanto, troppo da dare.

Non gli erano bastati nemmeno i due ori olimpici conquistati con una che definire semplicemente squadra è un abominio, e lo so anche io che di basket ho la competenza di dieci episodi di una docuserie.

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Quello era il Dream Team, con Michael Jordan giocava Magic Johnson.

Poi ho conosciuto quelli che con MJ hanno condiviso i trofei: Scottie Pippen, Steve Kerr, e il mio preferito, Dennis Rodman.

Di tipi come Rodman nel calcio ne abbiamo tanti: sono quelli che, c’è poco da fare, a Las Vegas devono andarci, ma poi sul parquet sudano intelligenza tattica ed energia. Scottie Pippen pare ci sia rimasto male di alcune dichiarazioni di MJ in merito a diverse partite controverse. Sindrome di Chiellini, la definiremmo in questo periodo storico.

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Ma se io fossi diventata nel tempo una Lola Bunny con le qualità da cestista di Michael Jordan, avrei pianto per giorni a pensare che nel documentario dedicato alla mia carriera ci sia Barack Obama a parlare di me. E Kobe Bryant.

E piangerei ancora se sapessi che Leonardo Di Caprio è a bordocampo a vedermi giocare.

Michael Jordan è stato tutto questo. Ed io che di basket non capisco nulla, adesso magari vado a capire come sono messi in classifica gli Utah Jazz.

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