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#LBDV – 26 Maggio 2013, il derby dei derby

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Ci sono date che segnano la storia delle società di calcio: Il giorno della fondazione, gli scudetti, le coppe, alcuni eventi drammatici. Ed è cosi per tutte le squadre e, chi più chi meno, ha delle date segnate in rosso sul calendario. Certo questo succede nelle città normali, non a Roma.

Nella città dove tutto è storia, dove camminando per strada puoi inciampare su un sasso con 2000 anni di vita, può accadere che la vittoria di una Coppa Italia diventi la DATA, quella tutta maiuscola, il confine temporale tra un prima e un dopo, tra gli inferi e la gloria.

Il derby della capitale non è mai stata una partita normale, un match come tutti gli altri. Certo c’è chi ha provato a dirlo, allenatori che per smorzare la tensione hanno sminuito quello che non si poteva. Ma la pura verità è che un pallone conteso nella stracittadina di Roma è una guerra da vincere, un oggetto da conquistare. Perché vincere il derby non è importante: è l’unica cosa che conta. Queste frasi appena scritte possono dividere i tifosi laziali e romanisti in due categorie: quelli che sono d’accordo e quelli che mentono dicendo di non esserlo. Perché questa è la verità che fa essere Lazio-Roma molto più di una partita.

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I giorni che portarono al calcio d’inizio della finale di Coppa Italia del 2013 furono la perfetta didascalia di un arcobaleno pieno di ogni sentimento.  La gioia di aver raggiunto un obiettivo si scontrava con la rabbia di aver di fronte l’ostacolo più odiato, l’ansia che saliva ogni giorno strappato dal calendario. La finta sicurezza di chi si sentiva vincitore ma che in cuor suo tremava dalla paura di uscirne sconfitto.

Giorni interi a immaginare protagonisti, a pensare ai possibili match winner, a praticare riti scaramatici improbabili ma per ognuno infallibili.

Poi c’è il calcio d’inizio che porta tutto in mondo parallelo, dove non c’è giustizia, non c’è equilibrio. Dove i tifosi sugli spalti, con i loro cori, le loro coreografie si sentono l’ingranaggio vincente del meccanismo. Dove si pensa che un coro azzeccato al momento giusto possa valere un gol, una vittoria.

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I protagonisti dicevamo, quelli più famosi. Dove sono adesso? Dov’è Miro Klose il re dei gol dei mondiali? Dov’è Francesco Totti il re della Roma giallorossa? Sono li sul campo ad assistere alla storia che si compie. A guardare Stefano Mauri, il capitano sbeffeggiato dai rivali per accuse mai provate, che infila con maestria un pallone per Candreva, si proprio lui, il tifoso giallorosso con l’aquila sul petto. Il numero 87  fa la cosa che ogni laziale si aspetta da lui: sbaglia il cross rasoterra. Ma il confine tra cross sbagliato e azzeccato è labile, sottile come una respinta di un guanto. Quello di Lobont che mette fuori causa Marquinhos e regala a Senad Lulic il pass per la gloria. Il pallone sarebbe anche difficile da mettere in rete, è in controtempo, ma capita sul piede di chi sfida il principio della gravità ad ogni tocco, ad ogni scatto.  Senad la calcia in qualche modo e la palla rotola in fondo al sacco. Lulic corre, Radu lo calcia ridendo mentre un boato squarcia il muro del suono. Un uomo svizzero alza le braccia al cielo davanti alla sua panchina sorridendo. Vlado Petkovic sa che passerà alla storia dopo un solo anno di Lazio.

Poi ci sarebbe molto altro, sofferenza, tripudio, delusione e tristezza. Ma la storia si è fermata prima. Al minuto 71 di una partita che consegna un giocatore bosniaco all’eternità e una DATA alla storia di una società.

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