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LEVA CALCISTICA ’68 – I sogni di Shaw

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Credete nelle favole?

Beh, anche se non ci credete, vi garantisco che, alle volte, si avverano.

A ricordarmelo ci pensa un signore che dimostra i suoi sessant’anni, magari leggermente imbolsito, che incrocia il mio sguardo al Chaophraya, ristorante Thai, appena fuori al Bullring a Birmingham. Ed e’ proprio quello sguardo, con cui ho il sopracciglio alzato in comune, che mi risulta familiare, la prerogativa che analizza l’onirico e mi spinge giù nel tunnel del tempo.

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Poi forse c’è l’accelerazione dei sensi provocata dai sapori e dagli aromi di quella meravigliosa cucina che porta rapidamente la mia memoria al ricordo di quella che, effettivamente, fu una vera e propria favola.

Il suo nome è Shaw. Gary Shaw.

E agli albori degli anni Ottanta, oltre a far ammattire le teen-agers di Sua Maesta Elisabetta II, faceva lo stesso con le muscolari ed ostiche difese di lega inglese.

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In campo il caschetto biondo rifletteva la luce del sole, soprattutto quel sole che illumina la via dopo giornate di pioggia e vento che rendono l’aria più tersa, giornate che da queste parti non sono certo una novità.

Le sgroppate accompagnate dai tocchi felpati sulla fascia destra del Villa Park ti facevano capire se Gary quel giorno fosse in forma. E se pure l’erba del prato si fosse presentata come un misto di fanghiglia e sudore, l’otto biondo sarebbe riuscito a volare lo stesso, anzi meglio.

L’accoppiamento del granata all’azzurro della maglia dell’Aston Villa era meraviglioso. L’iconica Umbro quell’anno aveva sfornato un altro capolavoro. Come meraviglioso era ammirare il team di Ron Saunders con un gioco d’insieme in sincrono che raramente si vedeva all’epoca.

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Mi ricordo fosse l’aprile del 1981 quando, leggendo quello che allora era l’unico “motore di ricerca” disponibile (Guerin Sportivo), vedo le immagini delle strade di Birmingham invase da decine di migliaia di anime che attendevano il passaggio del bus scoperto per festeggiare i propri beniamini freschi Campioni d’Inghilterra.

Di nuovo Campioni.

Settantuno anni dopo.

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L’otto biondo era in delirio più di tutti. Non era il capitano ma era figlio di quelle strade, l’unico Brummies in squadra. E in quel momento i suoi occhi azzurri riflettevano la folla impazzita che gli certificasse, perché stentava a crederci, la realizzazione del suo principale sogno: vestire la casacca della squadra di cui, da sempre, era tifoso e, con essa, vincere il titolo nazionale.

Ma Gary aveva altri sogni.

La Coppa dei Campioni, la “vera” Coppa dei Campioni, quella a cui, una volta, potevano partecipare “solo” i team Campioni di ogni singolo campionato nazionale europeo.

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La Coppa dalle Grandi Orecchie insomma.

Certo che, per una società che tornava a vincere il campionato inglese dopo settantuno anni e che negli ultimi quaranta era riuscita a piazzarsi tra le prime tre in una sola occasione, “quel” sogno era praticamente impossibile.

Considerando le caratteristiche spiccatamente “operaie” dei Villans, vederli vincenti contro squadroni come la Juventus di Bettega e Paolo Rossi, l’Anderlecht di Lozano e Coeck, il Liverpool di Dalglish e Souness, la Real Sociedad di Arconada e Zamora o il Bayern Monaco di Breitner e Rummenigge era abbastanza improbo oppure poteva voler dire che c’era qualcuno, molto in gamba, che in zona si era messo a giocare con la tavola periodica.

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Ora che ci penso, il partner d’attacco di Gary si chiamava Peter Withe, classico “nove” da area di rigore, che la metteva dentro come se non ci fosse un domani. Ma la acca nel cognome il dottor White di Breaking Bad l’aveva messa diversamente. No, non erano parenti. Non era possibile.

Scherzi a parte, dopo aver fatto fuori nell’ordine Valur, Dinamo Berlino, Dinamo Kiev e Anderlecht, la working class di Birmingham si presentò in finale il 26 maggio 1982 a Rotterdam contro il Bayern Monaco dei mostri sacri.

Nemmeno a dirlo, in Bavaria si sentivano già Campioni d’Europa.

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I sostenitori dei tedeschi presenti al Feijenoord Stadion, ubriachi fradici già qualche ora prima dell’incontro, ballavano e cantavano, con condimento di leggiadri insulti nei confronti degli odiati inglesi, sicuri di avere la vittoria in tasca.

Già.

Rummenigge, quella sera, brillava come non mai. Shaw al contrario pensava a coprire. Affiancava il suo capitano Mortimer a formare una linea Maginot per contenere le prevedibili ed intense sfuriate tedesche. Fino a quando, a venti minuti dalla fine, decise di uscire dall’ombra. Le luci artificiali dello Stadion erano accese da un po’ ma era la sua a sfolgorare di più quando, sulla trequarti sinistra, mandò letteralmente per le terre il diretto avversario con una finta e si inventò il corridoio per Morley che in area mise al centro rasoterra. Il nove, da solo in area, la buttò dentro con lo sguardo.

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Bayern 0 Aston Villa 1.

Fu vittoria meritata? Probabilmente no.

Fu goduria esagerata? Sicuramente sì.

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Quando il football era “il gioco più bello del mondo” ed era capace di partite e favole come quella dell’Aston Villa che portò a casa la Coppa dalle Grandi Orecchie al primo tentativo e con sfavori del pronostico.

Ma Gary aveva altri sogni.

Quello di vestire la maglia della sua Nazionale e partecipare ad un Mondiale.

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Ron Greenwood, il CT inglese, però, stronco’ il suo ultimo sogno. Lo escluse dai ventidue della spedizione spagnola, preferendogli magari qualche vecchia gloria in declino. E sì che probabilmente avrebbe avuto bisogno del bagaglio tecnico e dell’astuzia di Shaw nel match decisivo contro la Spagna, ma l’inspiegabile ed ottuso ostracismo nei confronti del giocatore lo portò ad essere eliminato senza sconfitte. Con Gary chissà come sarebbe andata, ma lui aveva ventuno anni e era nel pieno della forma psico-fisica, anche per i prossimi due o tre mondiali.

Ma c’era ancora un po’ di spazio.

Il 26 gennaio 1983 al Villa Park scese il Barcellona di Schuster e Quini  nella gara di ritorno per l’assegnazione della Supercoppa Uefa. Sette giorni prima, gli spagnoli avevano vinto uno a zero e, forti di questo risultato, davano battaglia, puntando anche ad innervosire l’avversario, grazie pure alla propria esperienza. Gli inglesi, a testa bassa, questa volta tentavano di rimontare ma sembrava che nulla possa scalfire la difesa catalana. Fino a quando, a dieci dal termine, sugli sviluppi confusionari di un calcio piazzato al limite dell’area, Shaw, subentrato da poco a Withe, si fece trovare pronto, all’altezza del dischetto, per il gol che annullo’ il vantaggio spagnolo.

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Tempi supplementari.

Mi ritornano in mente le lezioni di storia e le battaglie tra la Invencible Armada e la Marina Inglese.

Il calcio è un gioco maschio ma lì si stava esagerando.

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Ci pensò il belga Ponnet, quotatissimo arbitro internazionale che, nei tempi supplementari, decretò un calcio di rigore per i Villans molto contestato dagli inferociti, per usare un eufemismo, catalani. Dopo la trasformazione del penalty di Cowans, ci pensò McNaught a fissare il tre a zero in tuffo di testa su cross. Indovinate di chi?

In un tesissimo dopo partita, l’extraterrestre di Lanus, che giocava nel Barca ma che era infortunato, scese negli spogliatoi inglesi per chiedere la maglia numero otto di “quel biondino fenomenale”.

Insomma, in poco più di un anno e mezzo solare, Gary vinse quello che qualche altro giocatore sogna in una intera carriera. Aveva due sogni e li realizzò. Per il terzo aveva altre possibilità, a meno che…

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Quel “a meno che” si presentò spietato e feroce nel settembre dello stesso anno.

Gara contro il Nottingham Forest, una finta di corpo mise fuori tempo il diretto avversario che gli entrò sul piede di appoggio. Il suo classico movimento, il suo marchio di fabbrica, non sarebbe stato più lo stesso o probabilmente non sarebbe più esistito. Lunga convalescenza e ritorno al calcio giocato, ma lui diverso. Tecnica sempre invidiabile, intelligenza calcistica idem, ma il suo gioco sembrava monco.

Restò al Villa Park per anni. I suoi tifosi lo aspettavano ma l’attesa risultò vana. Gary Shaw non avrà più possibilità di mettersi in mostra, non avrà più possibilità di realizzare il suo ultimo terzo sogno.

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E ora, tra un noodle ed un edaname, nel suo sguardo mi accorgo di un lieve velo di malinconia, quella di chi è stato riconosciuto da un forestiero, grato per i sorrisi che ha strappato nel ricordo di ciò che ha rappresentato indossando la sua amata maglia, una delle più belle in assoluto.

Grazie Gary, per le emozioni che hai trasmesso ad un ragazzino, per il delirio dipinto sul tuo volto su quel bus scoperto, per aver realizzato parte dei tuoi sogni che al ragazzino hanno permesso di capire la bellezza del Football, ed anche la sua crudeltà, che è lecito sognare e che è giusto e doveroso farlo. Anche se, alle volte, il destino è avverso e non mi ha, e non ci ha, permesso di capire e vedere quello che avresti potuto essere e non sei stato.

E chissà se ti sei accorto del “mio” lieve velo di malinconia.

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