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18 aprile 2007: Messi osa unire ciò che Michelangelo aveva diviso

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Anno Domini 1508, Firenze: Michelangelo Buonarroti ha trentatré anni. Vive di pochi soldi; di persone, ancor meno: lo hanno allontanato tutti. Scontroso, irascibile, costantemente fissato sul proprio essere e sulle proprie creazioni, dicevano allora. Semplicemente un uomo con la sindrome di Asperger, diremmo noi oggi. Il suo bugigattolo, a Firenze, è tanto spoglio da far impallidire persino un povero: un letto, un cucinino, una mensola dove riporre i viveri. E tante, tantissime tele. Dipinge, Michelangelo: a volte completa, altre volte sospende; a volte, addirittura, squarcia e dilania le proprie opere belle e imperfette.

Stesso anno, Roma: Giulio II, papa, vuole qualcosa per cui passare alla storia, qualcosa per cui persino Bonifacio VII sarebbe impallidito. Li conosciamo, i papi di allora: poca fede, tanta politica e ambizione. Ad un tratto, l’idea: richiamare Michelangelo al Vaticano e fargli riaffrescare la Cappella Sistina. Un messo parte dalla porta a nord di Roma e si fa tutta la trafila di terre, arrivando a Firenze dopo tre cambi di cavallo. “Messere, il papa la cerca”, dice lui; “Digli che non è in casa”,  risponde l’altro. Mai stati facili, i rapporti tra i due. Fatto sta però che Michelangelo alla fine accetta: l’ambizione, la sfida lanciata da Giulio II hanno talmente tanta attrattiva su di lui che non può rifiutare, nonostante avrebbero preferito incontrare il papa ad Agnani, un po’ come Filippo il Bello e il Bonifacio di prima.

Passano tre anni, è il 1511: Michelangelo consegna al mondo tutto la Creazione di Adamo, un’opera di mastodontica bellezza. Giulio II lo capisce troppo tardi, che a passare alla storia non sarebbe stato lui.

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Diciotto aprile 2007, quattrocentonovantasei anni dopo: quarti di finale di Copa del Rey. Si gioca al Camp Nou, si gioca Barcellona – Getafe. Un ragazzino di vent’anni, argentino, comincia a farsi conoscere: chi del settore sa che è forte forte, ma un infortunio l’anno precedente l’aveva nascosto ai più. Eppure è lì, in campo, a far nascere la propria, personale, leggenda: Leo Messi. Messi prende palla a centrocampo, salta due avversari e si dirige verso la porta; è lontanissima, ma a lui non importa: qualcosa, non sa cosa, ma qualcosa vuole che continui a correre. Salta altri tre avversari, ora è al limite dell’area: si incunea dentro, il portiere si distende per prenderlo, a lui ed al pallone; Messi agisce però d’istinto e gli fa lo scavetto. Non lo realizza, nell’attimo esatto; lo fa dopo, al boato, immenso, del Camp Nou: era lo stesso, identico goal di Diego Armando Maradona. Icona, leggenda dell’Argentina, della sua Argentina. Tutti i bambini in Argentina si ispirano a lui; ma Messi, in quel momento, l’aveva esattamente copiato.

Quattrocentonovantasei anni dopo, Messi osa unire quello che Michelangelo aveva diviso. Le dita, di Dio e di Abramo, il primo uomo, forse il simbolo tra i simboli della Creazione, sono rimaste disunite, talmente vicine e talmente distanti da catturare lo sguardo e l’attenzione. Messi ha deciso di convogliarli insieme, ricucendo quella frattura che nell’arte sarà eterna, ma nel calcio è diventata altro. E forse, da qualche parte, Michelangelo avrà riso di gusto.

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