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NUMERO 14 – Un campione sul set

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“Mi chiamo Freddie Fields e sono qui per scritturare alcuni di voi per girare un film”. La proposta fatta ai calciatori dell’Ipswich Town viene accolta una sonora risata da parte dell’intera squadra.

Fields non se ne cura e prosegue. Innanzitutto si qualifica: “lavoro per la Paramount”. Poi illustra il progetto: “questa estate gireremo un film dove il calcio sarà protagonista”. Fornisce qualche dettaglio: “le riprese del film inizieranno ai primi di giugno. Lo gireremo in Ungheria”. E, alla fine, cala il suo asso: “I protagonisti del film saranno Sylvester Stallone, Michael Caine, Bobby Moore e Pelè”.

Silenzio di tomba nello spogliatoio, espressioni sbalordite sul viso dei calciatori e poi una serie di mani alzate e da parte di tutti i giocatori parte la stessa, identica richiesta: “Prenda me! Prenda me!”.

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Alla fine saranno scelti in cinque, più Paul Cooper, il portiere della squadra, ingaggiato come controfigura di Stallone, e il capitano Kevin Beattie, alter ego sul set di Michael Caine.

Ora, con tutto il rispetto per tutti i celebri componenti del cast della pellicola, risulta chiaro che il motivo di un cosi repentino cambio di opinione è la presenza di Pelè, O Rey del calcio.

Stavolta il suo carisma sarà al servizio di una autentica impresa su pellicola: c’è una grossa casa cinematografica alle spalle, un budget di svariati milioni di dollari per il progetto, la presenza di un mostro sacro di Hollywood come John Huston alla regia e una storia drammatica e coinvolgente alla base del film, ispirata a un reale evento storico risalente al 1942, con la messa in scena di una partita di calcio tra nazisti e prigionieri di guerra che da farsa di regime si tramuta in una occasione di rivincita nei confronti del Terzo Reich.

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Pelè è il perno attorno al quale ruota tutto il film.

La sua popolarità globale ha consentito di coinvolgere nel progetto degli autentici calciatori con il duplice risultato di aumentare a dismisura sia il realismo delle riprese che l’interesse degli spettatori, piuttosto curiosi di vedere come se cavano i loro beniamini davanti alla macchina da presa.
Infatti, oltre ai giocatori dell’Ipswich Town, fanno parte del cast il già citato Moore, l’argentino Ardiles, il polacco Deyna e il belga Van Himst.

Una volta giunti sul set ungherese il campione brasiliano è il collante del gruppo: sul terreno da gioco è un generoso dispensatore di virtuosismi tecnici mentre nelle pause delle riprese, munito di chitarra, intona alcune classiche canzoni brasiliane. Tra una esibizione canora e un tiro da fuori area Pelè si dimostra anche un allegro compagno di bevute, debitamente supportato dai suoi complici anglosassoni e da Deyna, cittadino albionico ad honorem per meriti acquisiti sul campo da gioco e al bancone del pub in egual misura.

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L’unico che si mantiene sulle sue è il divo Sylvester Stallone: scontroso e testardo, rifiuta persino di prestare ascolto ai consigli dello straordinario coach che gli hanno messo a disposizione, il leggendario Gordan Banks, portiere dell’Inghilterra campione del mondo nel 1966 nonché autore, nel Mondiale successivo, della parata del secolo proprio su colpo di testa di O Rey.

Niente di più facile che tanto la benevola pazienza di Pelè quanto la cocciutaggine di Stallone siano confluite nella sceneggiatura in modo da caratterizzare meglio i rispettivi personaggi.

John Colby (Caine), calciatore della nazionale inglese prima della guerra, si è accordato con il suo collega Von Steiner (Max Von Sydow) per organizzare una partita amichevole tra i soldati tedeschi della vicina base e gli alleati internati nel campo di prigionia.

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Adesso Colby ha bisogno di trovare gli uomini adatti per la squadra.
Durante una partitella improvvisata allo scopo, il pallone capita dalle parti di un soldato di colore, Luis Fernandez (Pelè).
E’ un attimo: la sfera viene catturata e poi sembra restare incollata ai piedi. Una, due, tre volte, poi passaggio sull’altro piede e quindi sulla testa.
Tutto senza mai farle toccare terra. Nemmeno una volta.

Colby non può fare a meno di chiedere dove avesse imparato a fare certe cose.
Fernandez taglia corto: “A Trinidad, quand’ero ragazzino. Lo facevo con le arance!”.

E se è risaputo che l’infanzia di O Rey è stata scandita da infiniti palleggi con un mango, vi è anche una testimonianza diretta dal set: Pelè si è divertito per oltre un quarto d’ora con una arancia.

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Dal canto suo anche Hutch (Stallone), un soldato canadese, è ansioso di entrare nel team di Colby ma solo perché ritiene che la partita possa favorire i suoi piani di fuga dal campo.
Ma Hutch è negato a giocare a calcio: si ostina a placcare gli avversari come nel football e ai rimproveri di Colby risponde con uno sprezzante “gioco da vecchiette!”.

Inserirlo nel gruppo è un problema, almeno finché il bonario Fernandez gli individua un ruolo in squadra con un singolare incoraggiamento: “Tu non sai dribblare, non sai passare, ma credo che saresti un buon portiere!”.

Formata la squadra a Colby, giocatore-allenatore, non resta che allenarla e istruirla tatticamente, con tanto di lavagna, gesso e schemi illustrati.

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A prendersi la scena è ancora Fernandez: dopo la spiegazione di Colby a proposito del modo giusto di arrivare in porta tramite una serie ragionata di passaggi si alza in piedi, prende il gessetto e illustra lo schema da seguire: gli passano la palla nella propria metà campo, lui con una serie di dribbling attraversa tutto il campo seminando gli avversari e alla fine mette il pallone il rete con tanto di chiosa finale “Facile!”.

Colby punta molto sull’entusiasmo dei suoi. E’ indispensabile. I loro avversari saranno i nazionali tedeschi, non i soldati di stanza nella base. Hanno deciso cosi per dimostrare la loro superiorità sul terreno di gioco.

Dopo averli vessati in ogni modo durante la prigionia ora vogliono umiliarli anche sul campo.

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Arriva il giorno della partita: lo stadio è gremito, la banda suona l’inno nazionale tedesco tra gli applausi degli spettatori mentre la squadra alleata cerca di combattere la tensione crescente. In palio non c’è solo la vittoria sportiva, questo lo hanno capito bene tutti quanti.

Hutch, dal canto suo, ha appena ricevuto l’informazione che aspettava e la gira a Colby: durante l’intervallo fuggiranno da un buco che i loro complici hanno aperto negli spogliatoi passando per le fogne cittadine.

Il primo tempo è una tragedia: gli alleati, complice anche l’inesperienza di Hutch, subiscono quattro reti e solo sul finire dei 45 minuti riescono ad accorciare le distanze.
In più, Fernandez, toccato duro dagli avversari, è ridotto a seguire la partita dai bordi del campo.

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Negli spogliatoi l’agente canadese vuole filarsela, come previsto dai piani, ma un ritrovato orgoglio dei compagni e le parole di Fernandez (“Hutch, se ce ne andiamo perdiamo ben più di una partita”) lo convincono a scendere in campo per la ripresa.

Gli alleati si riversano nella metà campo avversaria, infilano due reti in rapida sequenza e, grazie a una spettacolare rovesciata di un ristabilito Fernandez, riescono ad arrivare sul 4 a 4.

C’è gloria anche per Hutch: su un rigore dubbio vola sulla sua sinistra e blocca la conclusione del tedesco salvando il risultato.

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Alla fine, concluso il match in parità, vi è una festosa, pacifica invasione di campo di cui approfittano gli alleati per fuggire, mescolandosi alla folla.

Resta il ricordo di quanto avvenuto, l’arroganza dei nazisti è stata sconfitta dall’orgoglio di un gruppo e dall’abilità tecnica di un solo uomo.

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