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Leo Bonucci: di che colore è casa

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Leonardo Bonucci è una foto nell’immaginario collettivo. È il volto tirato, fintamente tranquillo, di un calciatore senza pallone, a cui è stato negato il suo primo e unico ferro del mestiere per quella sfida con il Porto, costretto a sedersi in tribuna al fianco del Vicepresidente ma non in poltrona, su uno sgabello. Se quello sgabello potesse parlare, di sicuro racconterebbe di aver dovuto sostenere più o meno ottanta chili di uomo, e più o meno otto quintali di rabbia repressa, di quella che ti gonfia le vene del collo.

Arredamenti a parte, quel giorno ho imparato che Leo Bonucci non è uno di quelli che le mandano a dire. Certo, poi te ne prendi le conseguenze. Ma ricordavo già un simpatico siparietto risalente al 2015 con un giornalista di fede partenopea a seguito di un 1-3 portato a casa dal San Paolo, che gli chiedeva come mai le battaglie europee della Juve non avessero la stessa conclusione di quelle sul suolo italiano, alludendo per l’ennesima, e diciamocelo, noiosa volta ad una connivenza della classe arbitrale. Leo non ci pensò due volte a rispondere a tono, guadagnandosi la stima e l’amore di tutto il tifo juventino.

Non che prima non ne avesse. Nato a Viterbo, città a cui è profondamente legato (non dimentica mai la processione di Santa Rosa, testimonia il suo profilo Instagram) Bonucci veste da ragazzo anche la maglia dell’Inter. È tra le file del Bari però che si fa conoscere, e che spinge la dirigenza bianconera a puntare tutto su di lui. E il tempo, i sette anni trascorsi a Vinovo prima e alla Continassa poi, gli danno ragione. Dopo non poche difficoltà con la gestione Del Neri, sotto l’ala protettrice di Antonio Conte forma insieme a Barzagli e Chiellini la BBC, triade dal nome di televisiva memoria che diventerà il simbolo dell’integrità e della invalicabilità delle retrovie juventine.

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Fino a quel giorno. Quello di uno Juve-Palermo stravinto per 4 a 1, in cui ad allenare la compagine bianconera c’era Max Allegri, nel fiore della sua infilata di scudetti conquistati. “Incomprensioni sui cambi” dirà poi Mister Allegri ai microfoni, ma sul rettangolo verde volarono parole ben più grosse. E Mister Allegri, uno che sdrammatizzava, uno che rare volte ha lasciato che i sentimenti si facessero largo tra la razionalità, ha agito da manager, da titolare.

E così, in quella sera di un ottavo di Champions poi conquistato, Leo Bonucci decide che il suo tempo da bianconero si è concluso, che quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un rapporto forse mai decollato davvero, forse ormai alle corde. Quella stagione terminerà con la cocente, cocentissima débâcle di Cardiff, e con l’addio di Leo alla casacca che aveva vestito per sette anni, per sei scudetti consecutivi, tre Supercoppe, quattro Coppe Italia.

Quell’estate Leo raggiungerà i suoi nuovi compagni, quelli del Milan. Perché non all’estero? Perché andare ad ingrossare le file dei rivali di sempre? Come può la rabbia portarti a prendere decisioni così pesanti, così drastiche, in grado di deteriorare definitivamente un rapporto con una tifoseria che ha fatto di te la propria bandiera?

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Nella stagione successiva Leo indossa la maglia numero 19, ma a strisce rosse e nere. Il 19 non ha mai lasciato le spalle del difensore in effetti, ma al Milan non è altrettanto fortunato quanto alla Juventus, citofonare Piatek per ulteriori dettagli.

Ricordo benissimo quel Milan-Juventus di ormai tre anni fa, la mia prima partita a San Siro. Leo non era in campo quella sera, era squalificato. Ma i cori dei miei compagni di piccionaia, quelli sì che li ricordo. Li ho cantati anche io, ho preso in giro anche io quello stesso Bonucci che poi verrà a Torino a segnare quell’unico goal in maglia rossonera contro la sua ex squadra, accompagnato dalla sua storica esultanza. “Sciacquatevi la bocca”, l’eloquenza dei gesti verso la sua ex curva.

Come poteva pensare che il mondo juventino non si sarebbe rivoltato contro la dirigenza l’estate successiva, dopo la presentazione del nostro nuovo giovane difensore, Mattia Caldara? Non nego di esser stata mossa dal senso di protezione nei confronti di questo ragazzo che, fresco di presentazione, viene spedito a Casa Milan come un pacco postale, e in favore di chi, poi? Di chi si era sciacquato la bocca davanti alla sua ex tifoseria, senza mostrare un briciolo di rispetto?

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Ma quel giorno venne. E Leo Bonucci indossò di nuovo la cravatta di Trussardi con il logo della Juve in basso. E disse di voler trasformare i fischi che lo avrebbero subissato in applausi. Ma soprattutto, disse che quella era casa sua, e che casa sua gli era mancata. Sulle prime, ho vissuto con indifferenza quelle parole. Ma se la parabola del figliol prodigo la raccontava uno che di perdono ne sa molto più di me, chi sono io per non lasciare che le orecchie di Leo Bonucci ascoltino ancora degli applausi?

Oggi Leo ne compie trentatre. Un’età importante, quella della piena maturità, soprattutto in ambito calcistico. Al suo fianco Chiellini c’è un po’ meno, dietro di lui Buffon a volte si prende una pausa, e ormai chiama Mister anche Barzagli. Sono cambiate un po’ di cose, ma l’augurio per Leo è quello di non dimenticare mai più qual è casa sua, e soprattutto di sentirla sempre tale. Di guardarsi intorno, e di trovare sempre i volti di chi ha vissuto al suo fianco per ormai otto delle sue stagioni da calciatore. E di sentire solo applausi.

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