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NUMERO 14 – Questione di centimetri

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“Scusa, puoi controllare quella porta? Sono sicuro che c’è qualcosa che non va”. Il magazziniere dell’Udinese è ancora a bocca aperta, incredulo per quanto ha appena visto. Come tutti i presenti al campo d’allenamento, del resto. Quel ragazzo dai capelli arruffati, terminata la seduta, ha sistemato le sagome di legno appena fuori dall’area di rigore e si è esercitato sulle punizioni dal limite. Cinque tiri, cinque palloni stampati sulla traversa. Una prodezza mai vista prima, da quelle parti. Eppure lui non è soddisfatto, sostiene che da quel punto del campo la mette sempre nell’angolino. E ha ragione: la verifica dimostra che la porta è più bassa di 5 cm rispetto alle misure regolamentari. Sarebbero stati quindi cinque centri perfetti. Solo il piede fatato di Zico poteva fare una cosa simile.

Calcio da strada

Un talento del genere può avere una sola origine, il calcio da strada del Brasile. All’anagrafe è registrato come Arthur Antunes Coimbra, nato a Rio de Janeiro il 3 Marzo del 1953, ma il suo vero nome non conta, troppa la fama del suo nomignolo di battaglia. La sua è una famiglia numerosa, ha ben quattro fratelli. E un padre appassionato di futebol, al punto da mettere assieme i suoi cinque figlioli per creare un formidabile team di calcio a cinque in grado di dominare le interminabili sfide nei tornei organizzati a Quintino, il sobborgo di Rio dove vive la famiglia. Arthur è il più giovane dei fratelli Antunes, il più piccolo anche dal punto di vista fisico: è un mingherlino dotato di uno scatto bruciante abbinato a un controllo di palla al di fuori del normale. Spadroneggia contro avversari molto più prestanti di lui e si guadagna il suo soprannome: Zico, il furetto. Minuscolo, veloce, agile e letale.

Cuore rubonegro

Le qualità dei fratelli Antunes vengono notate: due suoi fratelli maggiori entrano nelle giovanili dell’America di Rio. Lui vorrebbe seguirne le orme ma un giornalista lo convince a provare per il Flamengo, il club più prestigioso di Rio de Janeiro. Non che ci volesse poi molto a convincerlo, è un tifoso sfegatato di quella squadra, la camiseta rubonegra è l’unica che ha sempre sognato di indossare. Alla Gavea, la sede del Flamengo, dopo averlo visto all’opera ci si divide tra stupore e sconforto. Zico è un fenomeno palla al piede, la sua tecnica è molto al sopra della media dei ragazzi della sua età. E’ il fisico il problema: a 14 anni è alto appena un metro e 55 cm e misura 37 kg di peso. Numeri che sembrano precludergli un futuro da professionista nel calcio. I dirigenti stanno per congedarlo quando vengono bloccati da una voce autoritaria (“Affidatelo a me, ne farò un atleta”). E’ Roberto Francalacci, preparatore atletico della squadra. Nel campo la sua parola è legge, il ragazzino viene tesserato dal club rubonegro e messo sotto la sua tutela. La sua missione, prepararlo a diventare l’uomo simbolo della squadra.

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Sacrifici e passione

Non è un compito semplice, i suoi limiti fisici possono essere superati solo con un lavoro meticoloso di potenziamento atletico. Tre anni di sacrifici, allenamenti personalizzati in palestra alternati alle normali sedute al campo, lo trasformano nel campione che è destinato ad essere. A 17 anni può vantare numeri ordinari per un ragazzo della sua età (1 metro e 72 di altezza e 52 kg di peso), base ideale per quei mostruosi numeri tecnici che già fanno ammattire i difensori avversari e delirare i tifosi. E’ il leader della formazione juniores del Flamengo, la guida alla vittoria nel campionato di categoria del 1969 e l’anno dopo esordisce in prima squadra. Ci mette un po’ ad ambientarsi, soffre il passaggio di livello ma, alla fine, riesce ad imporsi anche nel calcio che conta. Nel 1973 diventa titolare fisso del Flamengo, la maglia sulle sue spalle porta il numero 10, quello dei fuoriclasse, e il premio alle sue prodezze è la vittoria nel campionato carioca, con in aggiunta il premio per il miglior giocatore del torneo, la Bola de Ouro. La sua passione per il calcio ha prevalso su tutto.

Vittorie e riconoscimenti

E’ la punta di diamante della squadra, il leader emotivo, il punto di riferimento dei compagni. Fioccano le vittorie (altri due campionati carioca e un campionato brasiliano) e i riconoscimenti personali (miglior giocatore del campionato, capocannoniere, Pallone d’Oro sudamericano), il suo stile di gioco è imitato da tutti i ragazzini di Rio, i suoi calci di punizione sono ormai un marchio di fabbrica. Nel 1980, dopo il trionfo in campionato, per Zico e i suoi è tempo di affrontare la Coppa Libertadores, la Coppa dei Campioni del Sudamerica. E’ un torneo lungo e difficile, gli avversari sono le migliori formazioni del continente. Il Flamengo, superata agevolmente la prima fase, si impongono anche negli scontri ad eliminazione diretta fino a raggiungere la finale. Gli avversari sono i rudi cileni del Cobreloa. Gente tosta, che non molla di un centimetro su ogni pallone e non ci sta proprio a perdere. Nella prima partita il superiore tasso tecnico dei brasiliani garantisce la vittoria per 2 a 1 (doppietta di Zico) ma, nel ritorno, la sconfitta per 1 a 0 impone al Flamengo di disputare la “bella” nel campo neutro di Montevideo per aggiudicarsi il trofeo. E’ decisamente un lavoro per Zico, lui non tradisce le attese: vittoria per 2 a 0, entrambe le reti portano la sua firma e la seconda è un suo classico, il calcio di punizione all’incrocio dei pali. L’anno dopo il successo si ripete anche in Coppa Intercontinentale, l’avversario è il Liverpool e la vittoria è sempre farina del suo sacco: tre suoi assist per altrettanti gol carioca, trofeo tra le sue braccia e premio per migliore giocatore della partita.

Il Pelè bianco

Nel frattempo ha iniziato ad alternare la camiseta rubonegra con quella verdeoro della Nazionale del Brasile: esordio nel 1976, partecipazione alla spedizione in Argentina del 1978 con terzo posto finale e prestazioni spettacolari in una tournee europea del 1981 con vittoria in casa dell’Inghilterra propiziata da una sua rete. E’ ormai per tutti l’erede ufficiale del più grande calciatore brasiliano, la stampa conia per lui il soprannome di “Pelè bianco”, tutti si aspettano che guidi la Selecao alla conquista della Coppa del Mondo al Mondiale del 1982 in Spagna. E’ in ottima compagnia, la squadra vanta un gruppo di elevato tasso tecnico (Junior, Falcao, Eder, Cerezo..), niente sembra poter fermare la marcia dei carioca verso la finale del torneo. Tuttavia il sogno si interrompe nella seconda fase: dopo una brillante vittoria per 3 a 1 contro gli eterni rivali dell’Argentina il Brasile deve disputare la partita contro l’Italia di Bearzot. Sembra un match con il risultato già scritto, ai brasiliani basterebbe anche un pareggio per qualificarsi alle semifinali. Ma il calcio non vive mai di certezze: una superba prestazione d’orgoglio degli azzurri, una certa supponenza da parte dei brasiliani, la giornata di grazia di Paolo Rossi e la marcatura implacabile di Gentile su di lui (ci torneremo, lo prometto) determinano la clamorosa sconfitta di misura per 3 a 2. Italia avanti e Brasile destinato a un mesto ritorno a casa. Anche gli eroi cadono.

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Campione in provincia

Un anno dopo il Mondiale spagnolo Zico arriva in Italia. Il suo nuovo club è una sorpresa per tutti: non Milan o Roma (squadre che lo avevano cercato in passato) bensì l’Udinese, piccola squadra di provincia che non ha certo ambizioni di scudetto. Tuttavia, il  suo carisma e il buon gruppo assemblato attorno a lui giustificano appieno l’entusiasmo dei tifosi friulani, pronti addirittura ad una secessione (storico lo striscione “O Zico o Austria”) nel caso le pastoie della politica impediscano al loro nuovo vate di indossare la maglia bianconera. Al  suo arrivo in Italia è ricevuto con gli onori riservati ai Capi di Stato, le magie che regala con il suo destro da leggenda fanno spellare le mani persino ai tifosi della squadra avversaria. Il suo primo campionato a Udine è da tramandare ai posteri: 19 gol su appena 24 presenze in campionato. Il suo principale rivale è praticamente un suo omologo: ha un destro che disegna traiettorie millimetriche, una visione da gioco sconosciuta ai comuni mortali e una abilità diabolica sui calci da fermo. Si chiama Michel Platini, viene dalla Francia e gioca nella Juventus. I due si sfideranno per tutta l’annata in uno spettacolare duello a suon di gol che vedrà prevalere il francese per una incollatura: 20 gol, appena uno in più del fantasista brasiliano. Se fosse pugilato Zico avrebbe perso solo ai punti.

L’ora del Crepuscolo

Ha ormai trent’anni. Si avvicina la fine della carriera. Dopo un non esaltante secondo campionato in Italia (15 presenze con appena 3 reti) decide di lasciare Udine per un nostalgico ritorno al Flamengo. Ma c’è ancora un ultimo, grande appuntamento a cui non può mancare, il Mondiale del 1986 in Messico. Zico arriva alla rassegna iridata con un fisico minato dagli infortuni. Non ha i novanta minuti nelle gambe, deve accontentarsi di scampoli di partita. Lo scontro decisivo è ancora contro il suo alter ego transalpino, il match contro la Francia di Platini è sul risultato di 1 a 1 quando Zico fa il suo ingresso in campo. Gli bastano ottanta secondi per essere decisivo: primo pallone toccato, i suoi occhi vedono un corridoio invisibile a tutti gli altri, assist di esterno destro a liberare il compagno Branco tagliando fuori tutta la difesa avversaria e inevitabile calcio di rigore procurato alla sua squadra. Sul dischetto non può andare che lui stesso, sarebbe eresia affidare il compito agli altri. Ma il Destino sa essere crudele: tiro non irresistibile, respinta del portiere e gara che si trascina fino ai rigori.

La successiva roulette russa dei tiri dagli undici metri premierà la Francia, mandando in frantumi l’ultima chance di Zico di fregiarsi del titolo di Campione del Mondo.

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Rimarranno ancora gli ultimi anni in Brasile prima di emigrare in Giappone per esportare il suo mito e concludere una carriera ultraventennale.

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