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Lo stop alla Serie A femminile: dilettanti per sempre

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Passare davanti alla sede della FIGC a Roma, in via Allegri, con vista su Villa Borghese, mette sempre un certo orgoglio. Dal cancello esterno si notano le teche in cui sono conservati i trofei conquistati dalla nostra nazionale. Vedere la Coppa del Mondo che abbiamo imparato a conoscere così bene nel 2006 è un’emozione ineguagliabile.

Ma il trofeo più grande è la gigantografia che campeggia sul lato del palazzo, che ritrae la Nazionale femminile, quella allenata da Milena Bertolini.

È passato un anno esatto dall’esordio di quella Nazionale al Mondiale di Calcio femminile. Un anno fatto di fiumi di elogi, di complimenti, di autostima per esser finalmente riusciti a dare al movimento calcistico femminile italiano il giusto coronamento, il riconoscimento di una serie di sforzi.

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Ma fatti da chi? Solo, unicamente, dalle ragazze che ogni giorno calcano i campi di gioco, con la stessa identica voglia di segnare dei colleghi maschi, con la stessa identica voglia di sollevare trofei.

Un anno dopo, assistiamo inermi all’ennesimo declassamento del calcio femminile, mai reputato professionistico, mai equiparato allo sforzo fisico, psicologico ed economico mosso dagli uomini.

Ci ritroviamo per l’ennesima volta ad una scelta all’italiana, un’abitudine che non avrà mai fine dalle nostre parti. Riempirsi la bocca di parole vuote, per poi tagliare le gambe al futuro alla prima occasione utile.

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A sei giornate dalla fine, la Serie A femminile non riprenderà. La Juventus Women, a nove punti di distacco dalla seconda classificata, non si vedrà assegnato il titolo. Un titolo che si sarebbe benissimo potuto rifiutare, certo. E molto probabilmente, viste anche le precedenti esternazioni relative al prosieguo della stagione maschile, sarebbe stato così.

Orobica e Tavagnacco in serie B, il Napoli femminile in Serie A, così come il San Marino, che scalza la Lazio con l’aiuto del famigerato algoritmo. Lo stesso che ha permesso al Milan di superare la Fiorentina nella corsa per un posto in Champions League.

Posizione condivisa dalle calciatrici, il no assoluto ai playoff e playout: posizioni frammentate dei club sulla ripresa.

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Solo 700mila euro i fondi stanziati per i club femminili, un valore atrocemente basso attribuito alla serie A, colpevole probabilmente di non avere lo stesso appeal di quella maschile.

Sì, ci tocca fare ancora questo tipo di discorsi, nel 2020, nel secolo che vede e che ha visto giocare Hope Solo, Alex Morgan, Carli Lloyd e Marta Vieira da Silva.

Non tutte le squadre femminili sarebbero state pronte ad una ripresa, i dubbi a livello medico continuavano a farla da padrone, l’impossibilità di alcuni club di aderire alle misure di prevenzione, o semplicemente la difficoltà a far tornare dall’estero le proprie calciatrici, a far ripartire la macchina. Da qui l’aut-aut “o tutte o nessuna”.

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Molto facile per la Federazione propendere per il nessuna. Molto, troppo facile eliminare il problema alla radice, perché di problema ormai si parla.

Oggi, a distanza di un anno da quelle notti magiche di Cristiana Girelli, Barbara Bonansea, Elena Linari e tutte le ragazze che, a discapito dei propri colleghi maschi l’anno precedente, erano riuscite ad acciuffare la qualificazione ad un sogno Mondiale. Che ad oggi resta un sogno.

E che rischierebbe di trasformarsi in incubo, se non si riuscisse a smettere di derubricare il calcio femminile a torneo da oratorio.

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