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Italia, cronaca di un fallimento annunciato

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garbo
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Disfatta totale. Peggio di una Caporetto per il calcio italiano. Peggio della Corea del 1966 (almeno ai Mondiali d’Inghilterra ci eravamo arrivati) e molto peggio dello spareggio contro la Svezia che ci impedì di partecipare a Russia 2018.

E’ il punto più basso della storia dell’italico pallone: a farci fuori è stata una Macedonia indigesta, n.67 della classifica mondiale.

Ma del resto, dopo il trionfo di Germania 2006, abbiamo collezionato solo brutte figure: eliminati dalla Nuova Zelanda nella fase a gironi di Sudafrica 2010, eliminati dalla Costa Rica nella fase a gironi di Brasile 2014, spettatori da divano agli ultimi due mondiali.

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Roberto Mancini ha dichiarato di sentirsi responsabile di questo fallimento e forse sta pensando alle dimissioni. E farebbe bene. Non perché siano stati i suoi errori a impedirci di andare al Mondiale del Qatar (basti pensare che per qualificarci sarebbe stato sufficiente che Jorginho trasformasse uno dei due rigori calciati nei due confronti con la Svizzera), ma per mettere il sistema calcio italiano di fronte alle proprie responsabilità. Un sistema marcio sin dalle fondamenta.

Mancini ha compiuto un miracolo nello scorso luglio vincendo un Europeo senza avere tra le mani la squadra migliore d’Europa. In quel mese è riuscito a dare un gioco, una mentalità, una dignità, una personalità a una nazionale composta da giocatori “normali”, priva di fuoriclasse. Una serie di congiunzioni astrali favorevoli e un pizzico di fortuna (come accade sempre nelle grandi imprese) ci hanno permesso di andare oltre i nostri limiti e (purtroppo) di dimenticare i nostri problemi atavici. Nell’euforia del momento abbiamo infilato la polvere sotto il tappeto, sperando che bastasse per farci voltare pagina. E ora raccogliamo quello che (non) abbiamo seminato.

La Dea Bendata ci ha presentato il conto ed eccoci qui a leccarci le ferite. Se non cambiamo registro (tutti, giornalisti compresi) in fretta, non sarà questo l’ultimo fallimento.

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Il presidente della Federcalcio Gravina è un eccellente dirigente, ma è ostaggio di componenti che gli impediscono (o almeno gli hanno impedito finora) di porre mano a riforme serie, strutturali.

Nel suo programma elettorale era prevista la riduzione della serie A da 20 a 18 squadre. Non si può fare, perché la Lega non vuole sentir parlare di quattro giornate in meno di campionato, pena la riduzione degli introiti televisivi.

E’ la stessa Lega che gestisce una serie A sepolta da un miliardo di debiti, di fatto tecnicamente fallita, con la protervia, la mancanza di visione e di progettualità degna di un’assemblea di condominio.

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E’ la stessa Lega che litiga su tutto, che ha impiegato mesi per eleggere il suo presidente sotto la minaccia della FIGC di nominare un Commissario Straordinario, ma che di fronte alla richiesta di Mancini di rinviare la trentesima giornata di campionato, per consentirgli di aver più tempo per preparare gli spareggi mondiali, ha ritrovato come d’incanto la coesione necessaria per rispondere picche.

Il presidente di questa Lega, Lorenzo Casini, in risposta a Gabriele Gravina, il quale a caldo dopo l’eliminazione con la Macedonia ha dichiarato che la Nazionale viene vista dai club come un fastidio, ha emesso un comunicato fumoso in cui parla della delusione dei bambini e conclude che “la Nazionale è di tutti”. O quasi.

E’ la stessa Lega che ha consegnato i diritti televisivi della serie A (col presidente della Lazio Lotito regista neppure troppo occulto e quello del Napoli De Laurentiis suo fido scudiero) a un operatore non in grado di rispettare gli standard minimi di trasmissione delle partite, con i risultati che sono sotto gli occhi dei malcapitati abbonati a Dazn.

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Abbiamo un campionato equilibrato ma poco competitivo e di livello tecnico modesto. Basti pensare alle figuracce che rimediano in Europa le nostre squadre non appena mettono il naso fuori dai confini italici.

Esaltiamo giocatori come fossero fenomeni, salvo accorgerci che sono onesti comprimari quando vengono messi a confronto con le squadre inglesi, tedesche o spagnole.

Il 70% dei giocatori della serie A sono stranieri, i nostri settori giovanili sono invasi dagli stranieri, molti dalla carta d’identità incerta, ventenni che vengono fatti passare per diciottenni.

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E i nostri giovani? Vengono mandati a “maturare” in serie B e C. All’estero invece i diciannovenni sono titolari e giocano la Champions League. Chissà come mai.

In questo contesto come fanno le nostre nazionali giovanili a trovare giocatori da lanciare in prima squadra? In Italia non c’è progettualità, non c’è coraggio, non c’è pazienza: ai giovani bisogna permettere di fare esperienza e l’esperienza si fa soprattutto sbagliando, senza essere esaltati dopo un gol o crocifissi dopo un errore.

Scontiamo un gap organizzativo e culturale che ci penalizzerà negli anni a venire, se non corriamo ai ripari in fretta. Espellendo i mercanti dal tempio, come fece Gesù a Gerusalemme qualche annetto fa. Finché le società continueranno ad arricchire con commissioni da 20 milioni di euro i procuratori che gli portano giocatori in scadenza di contratto, il sistema non potrà mai guarire, mettiamocelo in testa.

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Quindi, per tirare le somme, Roberto Mancini ha sicuramente commesso degli errori nella gestione del trionfo europeo (personalmente ritengo incomprensibili le convocazioni di Luis Felipe e Joao Pedro), ma non è colpa sua se il nostro calcio non esprime più campioni in nessun reparto, se il capocannoniere incontrastato del nostro campionato nei confronti internazionali diventa impalpabile come quel famoso borotalco.

E allora, o tutti si danno una regolata e cominciano seriamente a pensare al bene supremo del nostro calcio, oppure tra quattro anni ci ritroveremo a fare gli stessi discorsi e gli stessi processi di oggi. Chiunque siederà sulla panchina della Nazionale.

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