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CORNER CAFE’ – Un Diavolo dabbene

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Non pareva nemmeno un brasiliano. La classe sfoggiata dai connazionali prima di lui, e con lui, è un topos che non l’ha mai contraddistinto. No, Kakà è stato molto di più.

 Un ragazzino di pochi chili che fa spalla a spalla con Rino Gattuso, e vince contro Rino Gattuso, non è un brasiliano. E chi ricorda Ringhio in quegli anni sa benissimo cosa significasse. Un portamento tanto aggraziato quanto pragmatico, il cambio di passo, la resistenza ai colpi e quei tocchi che, sì, rimandavano la sua figura ai pentacampeones, ma non hanno mai incatenato il suo nome all’etichetta verdeoro. Forse è proprio per questo che il concetto Kakà è riuscito così bene: un giocoliere d’animo capace di lasciare da parte i propri istinti e rendere pratico ciò che, in teoria, avrebbe dovuto essere un fantasista.

 Un numero dieci camuffato da ventidue. E ai rossoneri andava bene così: perché quel ventidue se lo son cresciuti in casa, lo hanno coccolato e reso grande. Lo hanno amato come pochi altri, lo hanno pianto, alla sua partenza, come nessuno prima mai. L’idillo tra talento e messa in atto si sarebbe rotto, in quel funesto trasferimento spagnolo; troppo tardi Ricardo si è reso conto che per lui non c’era spazio per la sua semplicità tra i fortissimi – e boriosi – Galacticos. Ma, di fatto, è stato meglio così: perché lasciando Milano ha compreso quanto per lui fosse importante, e tornando si è reso conto che l’amore per lui era rimasto intatto. Nonostante quattro anni di lontananza.

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 Del resto, nei cuori dei rossoneri ci sarà sempre un posto per Ricardo Kakà.

Tanti auguri, Diavolo dabbene. 

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