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Incubo Heysel: 35 anni non bastano

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A partire dal 1985, il 29 maggio non è un giorno qualunque.

Non solo per chi ama il calcio, gioisce ad un gol dei propri beniamini, soffre per la squadra del cuore o rimane deluso per una sconfitta.

Non lo è per tutti.

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Perché esiste, per chiunque ne ha sentito almeno una volta parlare, un pre-Heysel ed un post-Heysel.

Una tragedia enorme, una vergogna infinita, una partita maledetta ed una finale che, senza tema di smentite, non doveva essere giocata.

Quando un muro crolla, nell’immaginario collettivo c’è sempre qualcuno che ha qualche conquista da festeggiare. Quella sera, invece, un muro crollato ha rappresentato la fine dell’esistenza terrena di trentanove persone uscite di casa solo ed esclusivamente per vedere una partita di calcio, una finale attesa tantissimi anni dalla Juventus che, prima di allora, la Coppa dei Campioni non l’aveva mai vinta.

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Quel 29 maggio lì morirono, schiacciati dopo il drammatico crollo di una parte del settore Zeta, un idraulico, un funzionario di banca, un bidello, un contadino, un tassista, due cuochi, un cameriere, un fotografo, diversi negozianti, quattro studenti, un soldato, due postini, tre medici, uno scolaro, un agronomo, e tanti altri tifosi che erano giunti, un pomeriggio di primavera inoltrata, in una Bruxelles baciata dal sole.

I feriti complessivamente furono alla fine circa seicento, in una giornata che ha cambiato per sempre la prospettiva di un calcio che quella sera doveva fermarsi.

Doveva essere un giorno di festa, ma è passato alla storia come una delle più grandi tragedie che lo sport ricordi.

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Grida, terrore, disperazione: trentacinque anni non bastano per giustificare un incubo come quello dello stadio Heysel vissuto il 29 maggio 1985.

Tagore, indimenticato poeta, ha scritto che “l’uomo si addentra nella folla per affogare il clamore del suo silenzio”. E nonostante si pensi abbastanza di frequente che, quando un errore è commesso da molti, resta impunito, il processo per i fatti accaduti in Belgio in realtà qualche condanna dopo diverso tempo è riuscito pure a comminarla, individuando facce colpevoli e certificando anche una responsabilità oggettiva della Uefa per i difetti organizzativi e di preparazione di una gara così sentita ed importante.

Ma, si sa, il bisogno di scaricare le colpe su qualcosa o qualcuno dipende sempre dalla mancanza di coraggio di affrontare quel che c’è davanti agli occhi.

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Nulla di quanto accadde il 29 maggio 1985, infatti, ha a che vedere con lo sport.

Cieco è chi non ha colto, vedendo scorrere anche solo una volta le drammatiche immagini di una folla in preda al panico, le contraddizioni enormi d’un episodio (per fortuna) senza eguali: la fatiscenza di un impianto sportivo non all’altezza dell’evento, la furia cieca di una tifoseria inglese che troppo facilmente ha raggiunto l’altro settore sfondando semplicemente una rete, la semi-distruzione di tutto quanto è venuto a tiro di tifosi inferociti, la tragedia di corpi schiacciati uno sull’altro, il sangue versato di tante vite innocenti e, poco più tardi, il fischio di un arbitro che ha sancito comunque l’inizio della partita. Novanta minuti decisi da un rigore quantomeno dubbio e da una serie di altri episodi contestati, una coppa alzata al cielo ed un’esultanza della quale, a distanza di così tanti anni, tutti si vergognano.

La tragedia ed il dolore della strage dell’Heysel è una ferita che in tanti portano ancora dentro, grande quanto basta per avere certezza che la cicatrice, pur se formatasi, continua a far male.

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La memoria”, ha scritto Qualcuno, “è il diario che ciascuno porta sempre con sé”. Ed è per questo che per dimenticare l’incubo di quella mite serata belga, trentacinque anni ancora non sono sufficienti.

Perché il calcio è gioia, spensieratezza, condivisione di valori, rispetto dell’avversario, agonismo virtuoso e spettacolo dentro e fuori dal campo.

Esattamente tutto il contrario di quanto accaduto il 29 maggio 1985 all’Heysel.

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