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NUMERO 14 – Odio quel che faccio ma non ho scelta

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“Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato”. E’ con questo brutale autoritratto che Andre Agassi si presenta al pubblico di “Open”, il libro dove parla del cammino che l’ha portato ad essere uno degli atleti più forti e popolari al mondo. Ma la sua è la storia di un percorso professionale che, per quanto esaltante, non nasce da una libera scelta. E’ il racconto di un bambino che doveva essere per forza un campione, di un adolescente che non ha alternative alla racchetta, di un uomo che trova un suo equilibrio solo quando smette di giocare. E riesce a guardarsi indietro e a mettere a fuoco l’inquietante paradosso che ne ha segnato l’esistenza. Odio quel che faccio ma non ho scelta.

Destino oppure ossessione?

Suo padre si chiamava Mike Agassi. Almeno per l’anagrafe statunitense. Il suo vero nome era Emanoul Aghasi, un iraniano con ascendenze assire ed armene. Nato da una famiglia molto povera era cresciuto come un ragazzo di strada fino alla fine della seconda guerra mondiale. La vittoria degli alleati gli aveva consentito di familiarizzare con le truppe angloamericane stanziate nel suo paese. I soldati gli regalavano cioccolata e scarpe, il ragazzino ricambiava con la più totale disponibilità, al punto da offrirsi come manutentore del campo di tennis dove passavano il loro tempo libero.  Alla fine della ferma il loro regalo d’addio era stata una racchetta, lo strumento con cui Emanoul aveva passato ore a palleggiare contro un muro, sviluppando l’attrazione verso il tennis. Nel frattempo la sua naturale propensione alla rissa era stata incanalata nel pugilato, disciplina nella quale riuscì a gareggiare in due Olimpiadi consecutive, senza, però, riportare a casa alcuna medaglia. Ormai stanco della miseria in cui era costretto a vivere era fuggito negli Stati Uniti, falsificando un passaporto. Dopo lo sbarco a New York si era trasferito a Chicago, dove aveva americanizzato il suo nome e iniziato a lavorare di giorno come ascensorista in un albergo. Di notte, invece, tirava di boxe. E sarebbe, forse, riuscito a sfondare se la paura non gli avesse giocato un brutto scherzo la sera del suo incontro più importante, al Madison Square Garden di New York. Una nuova fuga, dal suo avversario, dal match, dal pugilato in genere. Dopo il suo matrimonio si trasferì a Las Vegas con la giovane moglie, trovando lavoro in un resort come cameriere. Come secondo impiego offriva lezioni di tennis ai clienti, segno che la sua ossessione non si era affievolita. Si convinse che quello sport poteva offrire ai figli le opportunità che lui non aveva potuto avere, che fosse scritto nel loro Destino, e che fosse suo dovere indirizzarli in tal senso, che lo volessero o meno. Odio quel che faccio ma non ho scelta.

Una racchetta contro il drago

I figli erano quattro, nessuno di loro sfuggì ai tentativi del padre di trasformarli in macchine divoratrici di tornei. La primogenita Rita, affidata alle cure dell’ex campione Pancho Gonzales, chiuse con l’agonismo dopo essere diventata la compagna di vita del suo allenatore. Il secondo, Phillip, lasciò l’attività a causa dei propri limiti caratteriali mentre la terza, Tami, non aveva le doti fisiche per competere ad alti livelli. Restava Andre, l’ultimo, il più piccolo e anche il più talentuoso. Già da piccolo dimostra una straordinaria capacità di coprire l’intera visuale del campo. Ad allenare i suoi già prodigiosi riflessi ci pensa suo padre, sin da quando ha sette anni. Mike Agassi ha scelto con cura la propria abitazione a Las Vegas, si è premurato che avesse un cortile posteriore abbastanza ampio da poterci far costruire un campo da tennis. E quando Andre ci è andato per fare pratica si è trovato davanti un insolito compagno di allenamento, una mastodontica macchina spara palline tutta dipinta di nero che troneggiava su di lui. Da quel momento è stata il suo avversario, un drago minaccioso che gli sputava palline contro a 180 chilometri orari. Non meno di 2.500 al giorno, in modo che diventassero 17.500 alla settimana e quasi un milione all’anno.  Tutte da ribattere al di là della rete, in modo da diventare un atleta imbattibile. Il ragionamento di Mike Agassi, uno che crede nei numeri, diventa subito per il ragazzo un dogma indiscutibile. Quel campo diventa la sua prigione, può uscirne solo dopo aver terminato la dose giornaliera di palline ribattute. Non conta che voglia fare altro o che non ne possa proprio più. Odio quel che faccio ma non ho scelta.

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All’Accademia del tennis

L’intensità degli allenamenti con il drago da i frutti sperati. Nei sette anni successivi Andre straccia qualsiasi avversario si trovi di fronte nei tornei giovanili locali. Ormai è pronto per il salto di qualità, l’Accademia di Nick Bollettieri, un centro di addestramento per giovani tennisti in Florida, una fucina di futuri assi della racchetta. Come sempre Mike Agassi ha deciso, il figlio esegue. Vuole che diventi il numero uno al mondo e per questo deve “mangiare, bere e dormire tennis”. La costosa retta annuale di 12.000 dollari non è un problema dato che la sua permanenza all’Accademia sarà di soli tre mesi e Mike Agassi considera i tremila dollari da spendere come un proficuo investimento. Il primo impatto del ragazzo con la struttura è da brividi: somiglia tremendamente ad una prigione. Nick Bollettieri, il fondatore, è, invece, esattamente quello che sembra, un business man. Gli basta dare un’occhiata da vicino al gioco del nuovo arrivato per intuire che ha la stoffa del campione. E’, quindi, una sicura gallina dalle uova d’oro. Chiama immediatamente suo padre e lo informa che Andre può rimanere da lui quanto vuole. Gratis. Il previsto trimestre si trasforma in una permanenza a tempo indeterminato. Scuola privata il minimo indispensabile, non si può sottrarre troppo tempo agli allenamenti. La rigida disciplina imposta dalla Bollettieri Academy inasprisce molto il carattere di Andre che, pur di essere espulso ed andarsene, viola ripetutamente le regole, presentandosi sul campo con un taglio di capelli stile moicano, un vistoso orecchino e le unghie smaltate di rosso. La reazione di Bollettieri è furiosa: può andarsene anche immediatamente. Andre tenta la fuga ma viene fermato da uno degli istruttori e redarguito al telefono da suo padre. Un successivo faccia a faccia con Bollettieri risolve la questione: il ragazzo è stufo marcio della vita che conduce all’Accademia, l’uomo ha ormai capito che se rimane costituisce solo un cattivo esempio per gli altri. Alla fine la soluzione è l’unica possibile: Andre smetterà di frequentare l’Accademia per diventare un professionista e Bollettieri gli farà da manager procurandogli le partecipazioni ai tornei. Odio quel che faccio ma non ho scelta.

Che alternativa hai?

La ritrovata libertà coincide con la possibilità di partecipare ai maggiori tornei ATP del mondo. Assieme a lui il fratello Philip, nella molteplice veste di consigliere, compagno di scorribande e simil-manager. Nella primavera del 1986 al torneo Masters, in Florida, raggiunge la finale e, nonostante la sconfitta, avrebbe diritto a un cospicuo assegno per il risultato raggiunto. Accettarlo, però, vorrebbe dire diventare per sempre un professionista, precludendosi qualsiasi altra strada. Telefona al padre per chiedergli un consiglio su questa importante decisione ma la risposta di Mike Agassi è brutalmente sincera come sempre: “Prendi quei soldi. Hai lasciato la scuola, hai solo la terza media, che alternativa hai?”. Andre china la testa, suo padre ha ragione. Accetta l’assegno, accetta  di diventare quello che lui ha sempre voluto che diventasse. Odio quel che faccio ma non ho scelta.

Scalata ai vertici

Dopo il suo esordio da professionista non ci mette molto a scalare le classifiche. E non solo quelle del ranking mondiale. Il suo look stravagante (capelli lunghi, divise sgargianti, orecchini) lo fa diventare immediatamente popolare, almeno quanto il suo stile di gioco veloce ed aggressivo. Raggiunge già nel 1990 la finale del Roland Garros ma viene sconfitto da Peter Sampras, stesso discorso l’anno successivo con il secondo posto alle spalle di Jim Courier. Nel 1992 riesce a trionfare a Wimbledon, infrangendo anche il luogo comune secondo cui l’erba londinese non è l’ideale per un tennista con le sue caratteristiche. Trionfa negli U. S. Open del 1994 e nell’Australian Open del 1995 battendo in finale il solito rivale Sampras. Dopo un periodo di appannamento (nel quale comunque riesce a vincere anche il torneo olimpico di Atlanta 1996)  ritorna ai suoi livelli vincendo il Roland Garros del 1999 e diventando il quinto tennista della storia in grado di vincere almeno una volta tutti i titoli del grande slam. La sua evoluzione come atleta va di pari passo con l’acquisizione di una nuova consapevolezza. Si emancipa dall’onnipresente figura paterna dapprima tramite un matrimonio da copertina con l’attrice Brooke Shields e poi con la scelta di affidarsi a uno staff manageriale completamente nuovo. Sarà ancora a lungo un atleta ma secondo i suoi ritmi e i suoi criteri. Ha smesso di torturarsi pur di vincere un incontro, ha smesso di giocare soprattutto contro se stesso. L’uscita della sua autobiografia è l’ultimo passaggio, quello decisivo. Odio quel che faccio ma non ho (avuto) scelta.

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