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NUMERO 14 – Dura Lecce sed Lecce

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Dura Lecce sed Lecce? Ma che vuol dire questa frase? In che lingua è scritta?” “E’ latino, hanno adattato in maniera sarcastica un vecchio proverbio”. Indubbiamente avere una sorella maggiore in età da quinto ginnasio (il liceo classico prevedeva allora due anni di trafila ginnasiale) ed erudita nella lingua degli antichi romani faceva comodo. Specie se non hai ancora undici anni, devi finire la prima media e ti trovi di fronte ad idiomi sconosciuti. Sapevano tanto di presa in giro quelle parole e, in effetti, lo erano.

Testa a testa

Primavera 1986, il campionato di calcio sta per finire. In anticipo, perché il Mondiale messicano incombe e bisogna chiudere alla svelta per spedire quanto prima la comitiva azzurra oltreoceano a difendere il titolo conquistato quattro anni prima in Spagna. La Juventus di Trapattoni ha largamente dominato il torneo nella prima parte (al giro di boa è campione d’inverno con sei lunghezze di vantaggio sulla seconda) per poi cedere alla fatica nel girone di ritorno. L’agguerrita Roma del tecnico svedese Eriksson ha completato la rimonta ai danni dei rivali bianconeri fino ad appaiarli in testa alla classifica a quota 41 punti. Restano solo due giornate da disputare e il calendario è favorevole ai giallorossi. Adesso ospitano in casa il già retrocesso Lecce e poi devono andare a Como. Due impegni facili: i salentini giocano per onor di firma mentre i lariani, ormai certi della permanenza in serie A, non hanno bisogno di migliorare la classifica. Strada tutta in discesa per i giallorossi, a quanto sembra. Ma spesso il calcio è una metafora della vita: meravigliosa quanto imprevedibile, dare qualcosa per scontato è peccato mortale. E la Sorte sa colpirti a tradimento, quanto meno te lo aspetti.

Sapore di trionfo

Nella Capitale si sente già profumo di scudetto: i tifosi hanno preparato striscioni e bandiere, la coreografia della curva Sud all’Olimpico è grandiosa, il presidente Viola ha fatto un giro di campo prima della partita con l’aria del vincitore. E il Lecce, in tutto questo, ha l’aria di un imbucato alla festa: stretti in un angolo di uno stadio esultante e con l’aria dimessa di chi vorrebbe essere altrove i giocatori pugliesi appaiono come il più anonimo degli sparring partner.  Una formalità per una formazione che viaggia con il vento in poppa. Il giovane allenatore scandinavo ha costruito una squadra aggressiva e spumeggiante, in grado di dimenticare in fretta l’addio del leader brasiliano Falcao (cfr. “Una telefonata dal Ministero”), protagonista dell’ultimo scudetto. Predilige un gioco veloce, pressing esasperato e ripartenze fulminee. Il suo punto di forza è il centrocampo, dove il capitano Ancelotti e il guizzante Conti, spalleggiati dall’inesauribile mediano Gerolin, dettano legge, imponendo il proprio ritmo agli avversari. E quando prendono palla mettono subito in azione il braccio armato della squadra, l’ex bianconero Zibì Boniek. Il grintoso centrocampista polacco ha il dente avvelenato dopo essere stato scaricato dai dirigenti torinesi. Niente gli darebbe più soddisfazione di sfilargli lo scudetto da sotto il naso. Le sue rabbiose accelerazioni sono manna dal cielo per il centravanti Pruzzo, bomber capace di firmare 16 reti nel solo girone di ritorno.

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Fiato corto

Al contrario, la Juventus è un gruppo che ormai dimostra di aver esaurito le energie. I bianconeri sono partiti fortissimo ad inizio stagione, hanno stabilito un record con ben otto successi consecutivi in altrettante partite. Solo la magica punizione di Maradona (cfr. “Oltre la fisica”) ha interrotto il loro filotto di vittorie. Ma i bianconeri si sono ripresi in fretta e hanno imposto la loro supremazia, conquistando ben 26 punti sui 30 disponibili nel girone di andata. Nei mesi successivi un calo di forma generale e l’appannamento del leader Michel Platini (cfr. “Solo spumante”), causa infortunio, hanno favorito il riscatto giallorosso. Privi della guida dell’asso francese i bianconeri rallentano vistosamente il ritmo: a fronte dei 23 punti in tredici turni della Roma riescono a racimolarne solo 15 nello stesso periodo. Inevitabile l’aggancio in testa alla classifica, con prospettiva di spareggio per la conquista del titolo. Ipotesi terrificante per la Juventus: gli avversari vanno a mille all’ora mentre il loro motore mostra chiari segni di cedimento. Giocarsi il campionato in una sfida secca sarebbe proibitivo.

20 Aprile 1986

E’ arrivato il momento dell’incontro, sul terreno dell’Olimpico si affrontano Roma e Lecce. La Juventus è a Milano, avversario il Milan del grande ex giallorosso, il tecnico Nils Liedholm. Sembra tutto facile per la Roma, al settimo minuto è già in vantaggio con un gol di Francesco Graziani. E’ romano di nascita, è stato una bandiera del Torino scudettato di Radice, per lui scippare il titolo alla Juventus avrebbe un sapore particolare. Ma l’esultanza del buon Ciccio è solo il preludio alla tragedia. Il Lecce sfodera un orgoglio insospettabile e riesce a pareggiare appena dopo la mezz’ora di gioco. Autore del gol è il difensore Alberto di Chiara, prodotto delle giovanili della Roma e già debuttante in massima serie con la maglia giallorossa. Difficile pensare che in questo dramma il Destino non ci abbia messo del suo. A maggior ragione se si considera che dopo appena otto minuti un rigore realizzato dal centrocampista argentino Barbas porta i salentini in vantaggio. I giocatori romanisti tornano sul terreno di gioco ancora sotto shock e vengono puniti dagli avversari con una terza marcatura, ancora ad opera di Barbas. A fine partita, l’ennesimo gol di Pruzzo non serve ad evitare la sconfitta e il conseguente sorpasso ad opera della Juventus, vittoriosa a Milano con un gol dell’ex laziale Laudrup (cfr. “Il cavaliere che non fece l’impresa”).

Sogno sfumato

Il turno successivo certifica solo la vittoria juventina: i bianconeri passano 3 a 2 a Lecce mentre la Roma cede nuovamente a Como per 1 a 0. Svanisce il sogno scudetto dei giallorossi, similmente alla Ferrari promessa al tecnico Eriksson in caso di vittoria del tricolore. Sembra incredibile che sia avvenuto ma è quello che abbiamo avuto davanti agli occhi. Una squadra derelitta, senza più traguardi e stimoli, ha sconfitto davanti al suo pubblico la lanciatissima capolista del campionato, facendole perdere uno scudetto che sembrava già assicurato. L’incredibile capolinea della stagione viene crudelmente sottolineato da un anonimo tifoso, probabilmente più laziale che bianconero, con il latineggiante motto vergato su un muro dello stadio. L’adattamento del celebre “Dura Lex, sed Lex” rimarrà impresso, a futura memoria, come il più beffardo degli sfottò da tifoseria. Mai dire mai.

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