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NUMERO 14 – Oltre la fisica

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Tempo di lettura: 4 minuti

“Eraldo, passamela indietro”

“Ma sei matto, Diego, come fai a farla passare sopra?”

“Tu dammela dietro”

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“Diego, da qui non passerà mai!”

“Tu dammela e non ti preoccupare!”

Stadio San Paolo di Napoli, 3 Novembre 1985. E’ un freddo giorno di pioggia, sta venendo giù sin dal mattino e non ha mai accennato a smettere. Eppure l’impianto napoletano registra il tutto esaurito, l’evento è di quelli particolari e merita una cornice di pubblico adeguata. La passione dei tifosi sarà ripagata da una prodezza straordinaria, un colpo da maestro scaturito dal piede sinistro di un grande campione.

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Un grande eroe per una grande impresa

L’avversario di quel giorno è la Juventus, capolista del campionato con uno score pazzesco: otto vittorie su otto incontri disputati. Che sia tra le mure amiche del Comunale di Torino o sui campi altrui in trasferta non fa differenza, la squadra bianconera non ha fatto sconti a nessuno. E non ha intenzione di cominciare adesso. Le speranze di spuntarla contro un simile titano sono affidate per intero a un giovane numero 10 argentino. Ciuffi disordinati a coprirgli la fronte, sguardo spavaldo e flautato accento sudamericano. Diego Armando Maradona non ha rapito il cuore dei tifosi partenopei, lo ha ricevuto in dono sin dal primo giorno in cui ha messo piede in quello stadio. E’ al suo secondo campionato con la maglia azzurra, quello precedente si è chiuso con un anonimo ottavo posto. Non è una situazione che lo lasci soddisfatto, ha chiesto e ottenuto rinforzi per la squadra: un portiere affidabile come Garella tra i pali, un libero di esperienza come Renica a guidare la difesa e un bomber di razza come Giordano ad affiancarlo in attacco. Il gruppo è di valore ma solo il suo talento può fare la differenza contro la Juventus guidata da Platini. E’ una grande impresa, degna di un grande eroe.

Punizione a due

Il sardonico francese non ha risparmiato frecciate al suo rivale nel prepartita. Ad una domanda sul Maschio Angioino ha replicato identificandolo con Diego. Un modo come un altro per sottolineare che gli avversari non hanno nulla se non l’estro di Maradona. Un modo come un altro per scaricare tutta la pressione del match sulle spalle dell’argentino. Quest’ultimo, dal canto suo, appare assolutamente concentrato sulla partita e non abbocca alle provocazioni: farà parlare solo il campo. Sin dal primo minuto, complici anche le pessime condizioni del terreno allentato dall’acqua, il confronto tra le due formazioni appare duro e spigoloso. La Juventus cerca spavaldamente di tenere il pallino del gioco e di cogliere la nona vittoria di fila, il Napoli tiene botta e, aggrappato alle magie del suo campione, replica colpo su colpo. Non ci sta proprio a recitare la parte del comprimario, anche alla presenza dei primi della classe. L’incontro si trascina sino a venti minuti dalla fine in una situazione di sostanziale equivalenza tra le due squadre. Poi un lungo lancio dalle retrovie pesca Daniel Bertoni in area di rigore bianconera. L’attaccante argentino stoppa di petto e si prepara al tiro quando viene fermato dal libero bianconero Scirea con un intervento a gamba tesa. Gioco pericoloso e punizione a due in area juventina, a circa 11 metri dalla porta. Sul pallone si piazzano Eraldo Pecci e Diego Maradona.

Tanto segno lo stesso

Il terzino Bruscolotti è indignato con l’arbitro “Non ci hanno dato il rigore, com’è possibile?”. Maradona replica, serafico: “Tranquillo, Beppe. Faccio gol lo stesso”. L’assoluta fiducia nei suoi mezzi sconcerta sia i compagni che gli avversari. Come pensa di trovare uno spiraglio in quella muraglia umana che sta a meno di cinque metri da lui? Non ha forse completamente ostruita la visuale? Senza contare che, al fischio dell’arbitro, gli andranno contro o salteranno per togliergli ogni spazio di manovra. Pecci è stranito, non si decide ad appoggiare la palla a Diego. E’ impossibile che riesca a farla passare sopra le teste dei giocatori juventini e poi planare verso l’angolo della rete. Impossibile per chiunque altro, non per lui. Maradona gli ripete la richiesta, non ammette repliche. Spinge il pallone con la suola verso Diego. Maradona si coordina per colpire di sinistro mentre Scirea e Cabrini si staccano dalla barriera e gli vanno incontro. Il piede dell’argentino è appena sotto il pallone. Lo colpisce morbidamente di collo pieno e lo fa decollare, eludendo l’intervento dei due difensori. La palla si inarca e supera la barriera juventina, descrivendo una parabola perfetta. Sembra teleguidata e si abbassa d’improvviso. Il portiere bianconero Tacconi ha intuito l’angolazione e si distende in tuffo. E’ tutto vano. Il tiro diabolico di Maradona ha una traiettoria imprendibile  e finisce in rete tra le urla di gioia del pubblico del San Paolo.

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La punizione divina

“La punizione divina! La punizione divina!”. Anche l’aplomb nordico del ruvido mister partenopeo Bianchi si scioglie di fronte ad una simile prodezza. L’intero stadio è in delirio, i compagni si stringono attorno al trionfante argentino, gli avversari stanno a capo chino, annichiliti da un autentico prodigio. Pecci aveva ragione ad essere titubante: per le leggi della fisica un tiro del genere non aveva alcuna possibilità di essere realizzato. Non c’era lo spazio minimo sufficiente per consentire al pallone di oltrepassare la barriera e poi abbassarsi in tempo utile per depositarsi in porta. Senza contare che la distanza minima prevista dal regolamento era più che dimezzata e le condizioni del terreno rendevano ancora più problematico dare alla palla l’effetto e la direzione voluta. Maradona queste cose le ignorava? Forse. Di certo non gli ha dato importanza. E ha fatto bene dato che quello che è avvenuto quel giorno, al San Paolo, dimostra che il vero talento se ne infischia di ogni condizione avversa. E va oltre ogni cosa, anche le leggi della fisica.

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