Approfondimenti
ZONA CESARINI – Il poeta e il campione

Magrolino, curvo e con la gobba, con gravi problemi alle articolazioni e poca attitudine agli sport. No, non è una scheda su Pastore, ma parliamo del più grande poeta italiano, Giacomo Leopardi e del suo rapporto con lo sport.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798 da nobile famiglia. Dedicherà la vita agli studi, combattendo svariate problematiche fisiche e psicologiche fino alla sua morte a 39 anni, a Napoli.
Tra le sue opere, dallo Zibaldone alle Operette Morali ai suoi Canti, nel Novembre 1821, cento anni fa, pubblicò la poesia A un vincitore nel pallone.
Eh sì perchè il nostro, nei “dì di festa”, amava prendere la sua carrozza e farsi portare a Treia o meglio allo sferinterio di Macerata. Lì si giocava a “palla col bracciale”, una sorta di battimuro 3 contro 3 e con punteggio tennistico, il “bracciale” era un guantone dentato in noce con cui i battitori colpivano la palla.
Uno di questi battitori era l’oggetto dell’idolatria di Leopardi. Il Maradona dell’epoca, il Cristiano Ronaldo del Montefeltro si chiamava Carlo Didimi di Treia. Acclamato e idolatrato come un dio, pagato come un “milionario”, se si pensa che ad ogni esibizione prendeva 600 scudi, di contro lo Stato Pontificio all’epoca pagava un maestro al massimo 60 scudi… l’anno.
Il pallone col bracciale si può dichiarare come antenato diretto del calcio, anche come popolarità. Il calcio lo porteranno gli inglesi nei porti di Genova verso la fine del secolo. Ci rallegriamo che la tradizione del bracciale si sia interrotta. Ve lo immaginate Montero con un “pugno” dentato in noce?
Oggi poi chi sia Carlo Didimi non lo sa più nessuno, tranne a Treia dove il vecchio sferinterio è a lui dedicato e da 40 anni si svolge una rievocazione storica. Chissà tra altri cento anni i nostri campioni come saranno ricordati.
Ma già all’epoca Leopardi avrebbe compreso la straordinaria forza comunicatica e l’influenza dello sport. Probabilmente l’ammirazione nasceva anche dalla nemesi che Didimi rappresentava: alto, atletico, amato da tutti, ma nessuna punta di invidia toccava il poeta.
Per dire comunque che quando giudichiamo i nostri tempi, con gioie e e/orrori, in tempi antichi le cose funzionavano in maniera simile. Anche lì un intellettuale poteva perdersi nel “circo” di uno sport, c’era disuguaglianza sociale magari, insomma tutto cambia per non cambiare mai.
Di gloria il viso e la gioconda voce
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Nè la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
II caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne' perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede
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