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CORNER CAFE’ – I calciatori (non) sono come gli altri

C’è bisogno di uniformità, è insindacabile. Del resto lo si è visto anche con i variopinti assetti da Fase 2 delle varie regioni, dai risultati più o meno – perlopiù meno – felici. Ci sarebbe bisogno di uniformità anche nel mondo del lavoro. Ci sarebbe bisogno. Perché, in questo caso, non c’è: c’è chi ha sempre lavorato, nonostante il Covid; c’è chi ha fermato tutto, per poi riprendere un attimo prima di affogare; chi invece continua a galleggiare, aspettando quella bolla d’aria che permetta di tornare sott’acqua. Questione di precedenza: non siamo tutti uguali, si è in crisi e bisogna adeguarsi. Anche perché, prima o poi, torneremo a lamentarci del fatto che si lavora troppo.
Nemmeno i calciatori sono uguali agli altri. Tra cifre spropositate e assistenza costante, i guanti di velluto con cui vengono trattati sono otto, tutti indossati da persone diverse. Non sanno cosa significa dover ingollare decisioni sfavorevoli per la categoria, o dover fare i salti mortali pur di poter arrivare a fine mese con la pancia piena. Seduti su bei divani di vera pelle, col loro milioncino annuo, possono davvero arrogarsi il diritto di non voler fare quello che, per molti, è stato un sogno irrealizzabile? Il calcio è un lavoro, diciamocelo chiaramente. E se per loro è un divertimento ben pagato, per altri è un modo per poter sopravvivere. Tornare in campo – con le dovute attenzioni, sia chiaro – è cosa buona e giusta. Non tanto per loro quanto per chi col calcio vive una vita normale, come tante altre categorie che hanno poco a che fare con Serie A e affini. Se solo comprendessero quello che Amin Younes ha detto a chiare lettere, forse la loro visione del mondo del pallone cambierebbe. Capirebbero, forse, che c’è davvero bisogno di uniformità. Per tutti, e soprattutto per loro.