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CALCIO & BUSINESS – Business plan Napoli: una certezza o un castello di carte?

Ancora una volta il Napoli è giunto al punto di non ritorno: risultati scarsi, discussione dell’allenatore, polemiche nell’ambiente e scomparsa della dirigenza.
Ancora una volta si giungerà alla solita soluzione: esonero dell’allenatore, ingaggio roboante di un nuovo mister sul quale costruire la narrativa del “nuovo Ferguson”, del “progetto”: progetto che mai decollerà è che riporterà il Napoli, di nuovo, al punto di partenza.
La S.S.C Napoli ha più soldi di quanti ne abbia mai avuti (la società azzurra, neanche nella sua “età aurea” a fine secolo scorso, era così “sana” dal punto di vista economico) ma vuole restare quello che è, offrendo ai tifosi lo specchietto per allodole della “lotta contro un nemico esterno”. E questo non lo dico io, matricola di economia aziendale all’università degli studi di Napoli Federico II, ma i bilanci pubblicati ogni 30/6 dalla S.S.C. Napoli.
Consideriamo la stagione appena conclusa, una stagione che ha visto la società azzurra fronteggiare il danno economico apportato alle casse societarie, un 7° posto in Serie A ed un cambio di allenatore, al netto della vittoria della Coppa Italia e del raggiungimento degli ottavi di finale di Champions League.
Tutti i flussi di entrate della società napoletana sono stati inferiori rispetto alle scorse stagioni: introiti derivanti dai diritti televisivi in calo di 22 milioni di euro (15%), flessioni commerciali in calo di 5 milioni di euro (11%), incassi derivanti dall’assenza dei tifosi allo stadio in calo di 3 milioni (17%).
Le spese, in maniera inversamente proporzionale, sono invece aumentate: gli ammortamenti dei giocatori sono aumentati di 36 milioni di euro (45%), gli stipendi sono aumentati di 6 milioni di euro (4%), le altre spese, non derivanti dai giocatori, sono aumentate di 2 milioni di euro (5%) (sebbene gli ammortamenti siano diminuiti di 1 milione di euro).
Al netto di ciò, il risultato economico dell’esercizio dei partenopei è stata una perdita di 19 milioni di euro al netto delle tasse, non un risultato economico eccezionale considerando le grandi aspettative ch’erano riposte sulla squadra campana, ma molto inferiore alle enormi perdite del 2019/2020 di altri club italiani (Roma 204 milioni, Milan 195 milioni, Inter 102 milioni e Juventus 90 milioni).
Il COVID ha ridotto le entrate del Napoli nel 2019/20 di circa 32 milioni di euro: senza questa riduzione, il Napoli avrebbe registrato un fatturato totale di 306 milioni di euro (inclusi 96 milioni di euro dalle vendite dei giocatori), cioè superiori ai 300 milioni di euro dell’anno precedente ed è proprio questo il punto di partenza della mia discussione.
Il fatturato degli azzurri è in costante crescita, ma il modello di business della società dell’imprenditore romano Aurelio De Laurentiis consiste in un perpetuo ciclo di “scommesse”: scommesse sugli allenatori, scommesse sui giocatori, scommesse sul settore tecnico della squadra, il tutto contornato dalla ciliegina sulla torta: la totale assenza di investimenti strutturali, la totale assenza di un modello di business di respiro internazionale volto ad aumentare la potenza del brand “Napoli” sui mercati esteri.
Quando le cose vanno bene si procede alla “monetizzazione”, quando le cose vanno male si scaricano le colpe sull’allenatore e si “scommette” di nuovo, nascondendo la polvere sotto il tappeto e celando il più grande problema degli azzurri: l’assenza di un progetto.
Questa continua ricerca di successo (e profitti, perché di questo si parla) immediato e mancanza di stabilità è il risultato di una scarsa leadership dirigenziale, che concentra i poteri nelle mani di pochi che, senza prendersi le proprie responsabilità, scaricano le colpe sul “nemico” del caso con una comunicazione “populista” e tipicamente italiana, che per nulla si addice ad una delle prime 20 squadre al mondo (e qui va dato merito a quella stessa dirigenza che, da questo punto di vista, ha svolto un ottimo lavoro).
Come ogni anno la società azzurra è ferma, in balia di manie di magnificenza, mentre le altre squadre progettano partendo dalle basi: investimenti nel settore giovanile (si veda Atalanta, Milan, Roma ed Inter), investimenti nella comunicazione social (si vedano l’Inter ed il Milan, ma anche società meno blasonate come Pordenone e Pescara) e nel marketing, in strutture societarie (si veda l’Atalanta in Italia, Atletico e Tottenham oltre il confine del nostro paese: società che dovrebbero essere un “modello” per il Napoli, una squadra che
sta costruendo la sua storia nel XXI secolo).
Il Napoli, ancora una volta, è giunto al punto di non ritorno: Aurelio De Laurentiis decida cosa questa società ambisce ad essere perché il tempo delle scommesse sta per finire, le altre corrono ed il “progetto” sul quale il Napoli si sta sorreggendo non è una fortezza ma un castello di carte.