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ESCLUSIVA – Moriero: “Al Mondiale del ’98 meritavamo di passare”

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Inter Serie A
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Pomeriggio ricco di appuntamenti per la nostra rubrica social #ACasaConVlad, primo ospite di giornata è stato Francesco Moriero, ex centrocampista di Roma ed Inter, tra le altre, che ha rilasciato alcune dichiarazioni nel corso della diretta.

Di seguito proponiamo l’intervista completa.

Partiamo subito con questa iniziativa “Angeli di quartiere”, pensata per aiutare chi in questo momento è in difficoltà. Tanti sono i tuoi colleghi che hanno preso parte al progetto, tra cui Fabrizio Miccoli e Francesco Totti.

”Tantissimi miei ex colleghi mi stanno aiutando. Ho ricevuto l’altro giorno anche il messaggio di Francesco (Totti, ndr.) che è un ragazzo davvero di cuore. Ha saputo di questa iniziativa che stiamo portando avanti con Fabrizio per aiutare le famiglie in difficoltà di Lecce e si è messo a disposizione. Le persone devono restare a casa: ci pensiamo io e Fabrizio a portare loro la spesa a casa. Paradossalmente gli anziani sono quelli che ci stanno più aiutando in questa situazione, forse perché hanno già vissuto momenti complicati. Lavoriamo per aiutare anche le persone che ne hanno più bisogno economicamente. Quando torni a casa dopo aver visto un sorriso di un bambino, ti accorgi che vale più di uno scudetto o di un gol. Abbiamo la fortuna di essere famosi, che la gente ci segue e sfruttiamo questo per dare una mano. I veri eroi sono i ragazzi che fanno volontariato, quelli che sono disoccupati o che sono in cassa integrazione. Siamo un popolo fantastico, quando c’è da aiutare il prossimo siamo sempre presenti. Andrà tutto bene ma adesso c’è bisogno dell’aiuto di tutti”.

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Questa cosa è un plauso alla gente del Salento. Nasci a Lecce calcisticamente e con questo gesto stai ricambiando?

“In questo momento c’è bisogno di visibilità e non di pubblicità, che è una cosa diversa. Ci mettiamo la faccia. La nostra terra ha bisogno dei propri figli perché la gente ha bisogno di noi. Qui si parla sempre delle gesta dei campioni, ma chi ci ha dato la possibilità di diventare qualcuno sono i tifosi. Senza di loro non siamo nulla e quando loro hanno bisogno, bisogna rispondere presente. Ho donato anche la prima maglia della Nazionale: ero molto legato, ne ho parlato anche con i miei figli, ma ci siamo resi conto che era una cosa da fare. Ci manca il calcio e proprio per questo noi colleghi ci siamo riavvicinati e ci stiamo divertendo nel ricordare il passato”.

Hai esordito con il Lecce, squadra della tua città e per cui hai sempre tifato. Cosa si prova?

“Era un altro calcio quello: c’era solo il pallone e nient’altro. Vedevo la trasmissione ’90° Minuto’ , sognando di diventare un grande calciatore. La mia storia al Lecce è molto particolare, è stata baciata dal destino. Inizialmente dovevo essere ceduto in Eccellenza. Incontrai Santin (allenatore del Lecce, ndr.) e gli dissi che mi volevano cedere. Convinse la società a tenermi e dopo un po’ di tempo mi fece esordire. Due anni dopo arrivò Mazzone ed è stata l’esperienza che mi ha cambiato la vita nel calcio. Era la festa di Sant’Oronzo (Santo patrono di Lecce, ndr.) e alla rifinitura si infortunò un titolare. In quel periodo ero al mare e pensavo a divertirmi con i tornei sulla spiaggia. Chiamarono mio padre, dicendogli che dovevo correre al centro sportivo per rispondere alla convocazione. Andai di corsa senza badare al costume e alle ciabatte (ride, ndr). Mazzone era un animale e prima della partita aveva sempre uno sguardo cattivo. Quando lo incontrai, quel giorno, mi guardò e mi disse: “Non mi frega nulla se magari sei emozionato o meno, giochi e basta!” (ride, ndr.). Indossare quella maglia è il sogno di una vita. Portare avanti il nome della propria città è un orgoglio. Il mio intento era quello di dare spettacolo, perché il calcio è fantasia e sogno. Con quella maglia ho avuto modo di fare partite importanti. Come dimenticare quella volta che giocai contro Maradona o contro Cabrini”.

Sul passaggio a Cagliari:

“Con il Lecce raggiungemmo grandi risultati, poi ci fu questo distacco di molti di noi. Antonio Conte andò alla Juventus, e io già dovevo essere ceduto all’Inter in quella estate. Ci fu la prima richiesta di Zeman a Foggia, ma non volevo accettare. Poi arrivò la chiamata di Mazzone da Cagliari a cui non potei dire di no. Ero già in un giro importante con la Nazionale Under 21. Cellino mi pagò molto ed inizialmente sul contratto mi inserì un bonus sui gol. La cosa non piacque molto a Mazzone che disse al Presidente: “Questo non la passa più!” (ride,ndr), e mi inserirono così anche il bonus sugli assist. In Sardegna ho iniziato a giocare con grandi calciatori e ad alti livelli. Arrivammo sesti quell’anno e Mazzone andò ad allenare la Roma. In panchina arrivò prima Radice e successivamente Giorgi che a Cagliari fece bene. Lì eravamo una banda vera (ride, ndr). Arrivammo in semifinale di Coppa contro l’Inter. Quel doppio confronto rimane un rimpianto, anche se giocare a San Siro è molto difficile e ci sta uscire contro una squadra del genere”.

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L’arrivo a Roma:

“All’inizio dovevo essere ceduto alla Lazio di Zeman, ed ero entusiasta di approdare lì. Distaccarmi da Cagliari fu doloroso, piansi. Arrivai alla Roma con il peso dei dieci miliardi serviti alla società per prendermi e soprattutto con il peso della maglia numero sette. Mazzone mi disse: “Vedi che questa maglia l’ha indossata Conti!” (ride, ndr.). Ricordo con piacere il derby vinto per 3-0, il primo che io giocai. Mazzone ci martellò subito perché era l’epoca del paragone di Zeman e poi era pur sempre un derby. Arrivammo talmente carichi che scendemmo in campo e la chiudemmo già prima dell’intervallo”.

Quella Roma era particolarmente amata perché lottava e c’era un animo romano molto folto:

“Sì, erano quasi tutti romani. In quegli anni stava esplodendo anche Totti, che in allenamento faceva vedere cose strepitose. La gente a Roma voleva che il calciatore sudasse la maglia e quella squadra lo faceva”.

Hai avuto modo di osservare dall’interno il passaggio di consegne da Giannini a Totti: com’è stato vissuto?

“Quando stavamo dentro lo spogliatoio con Giannini al nostro fianco, si entrava in punta di piedi. Ascoltavi sempre quello che diceva e non diceva mai stupidaggini. D’altro canto, non c’era l’arroganza di mettersi a confronto con i personaggi forti dello spogliatoio, così come magari succede adesso. Totti ha guardato e ha imparato molto lui. Sapeva di diventare un simbolo, però non si azzardava a muovere un dito contro Giannini (ride, ndr).

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Il trasferimento all’Inter fu molto strano. Ti avevano venduto in Inghilterra, per poi essere ceduto al Milan.

“Ero convinto di rimanere a Roma perché era arrivato Zeman, che mi voleva già in altre occasioni. Ciò non successe, andai via da svincolato e mi accordai inizialmente con il presidente del Derby County. Poi mi chiamò Galliani e non potevo dire di no, era una grandissima squadra ed una grande società. Andai a Milano per la firma e la presentazione e tornai a Lecce. Dopo dieci giorni arrivò la chiamata di Mazzola e mi chiese se mi facesse piacere andare lì, approfittando dell’affare delle due milanesi che vedeva protagonista Cruz”.

Quindi, il passaggio in nerazzurro:

Pian piano mi sono ritagliato un posto svolgendo allenamenti specifici. Il rapporto con Ronaldo? Per ogni ruolo non c’è il numero uno, anche se per me Ronaldo rimane il numero uno in assoluto. Ma di grandi campioni, soprattutto in Serie A, ce ne sono stati tantissimi”.

Forse avete raccolto meno di quanto avreste meritato. L’emblema di quegli anni è il famoso episodio controverso di Torino nello scontro diretto contro la Juventus:

“Magari la Juve avrebbe vinto uguale quell’anno. Quello che mi infastidisce non è ricordare la partita, ma sono alcune dichiarazioni rilasciate dopo anni che fanno male. E poi non ci fu soltanto quell’episodio. Sicuramente avremmo potuto vincere di più: era una squadra simpatica a tutti e non solo agli interisti. La forza era il gruppo dei sudamericani – i vari Recoba, Ronaldo, Simeone e via dicendo – che erano vincenti ed allegri. Lo stress così non si sentiva per nulla”.

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Sul gol contro il Piacenza:

“Mi fece godere tantissimo. Il sogno di ogni calciatore è quello di scartare tutta la squadra per poi segnare. In quella partita dovevo essere sostituito. Mi capitò l’ultimo pallone prima della sostituzione e cominciai a scorrazzare per tutto il campo. Dopo che la palla andò in rete, andai da Simoni in panchina e scherzai sull’imminente cambio (ride, ndr.)

Capitolo Nazionale: le prime due amichevoli che ti garantirono il posto in rosa per Francia ’98:

“Era dura in quegli anni per la Nazionale e mi sono dovuto conquistare sempre tutto. Per la Nazionale ci sono stati sempre i paragoni con i grandi numeri 7, che all’epoca era più pesante della 9, ma a me è sempre piaciuto essere me stesso. Poi c’era Di Livio, con la sua esperienza internazionale che pesava. L’Inter mi ha dato la possibilità di fare grandi cose in campo internazionale e di essere notato per la maglia azzurra. Nella prima partita feci due assist e già si iniziò a parlare della convocazione. Successivamente ci fu la partita a Parma contro il Paraguay ed era fondamentale per me fare bene. Mi andò bene, tanto che segnai due gol, di cui uno bellissimo in rovesciata. Stare con i grandi campioni ed indossare quella maglia è qualcosa di fantastico. Mi piace sempre ricordare un aneddoto riguardante Bergomi: durante l’inno, lui si emozionava sempre, e questo fa capire che anche per un Campione del Mondo la Nazionale rimane sempre un qualcosa di speciale. In quel Francia ’98 arrivammo ai quarti di finale contro i padroni di casa. Era una partita da vincere, per me, nonostante le assenze. Meritavamo di passare, e per questo fu una grande delusione.”

Oggi sei un allenatore: quanto è complicato trovare l’ambiente giusto?

“L’allenatore non è come il calciatore. Quest’ultimo è una macchina a sé stante, invece per l’allenatore è molto più complicato: devi stare attento a parlare con trenta teste. Il calcio è particolare in questo momento perchè se ci sono molti presidenti che hanno grande idee, d’altra parte alcuni devono fare pace col cervello. Ci sono presidenti che dopo qualche sconfitta mandano l’allenatore a casa e non è un fattore facile da gestire. Rappresentare una città, seppur dalla panchina, è difficile ma bello. Amo insegnare calcio e voglio continuare a farlo. Quando hai la fortuna di vedere i calciatori che hai lanciato è un orgoglio, perché l’allenatore vive per i propri ragazzi. La mia carriera d’allenatore nasce in Africa. Quello è un paese stupendo, anche se dal punto di vista professionale ho dovuto far molto perché lì bisogna insegnare la tattica ed i movimenti. Tre partite prima della fine del campionato (poi vinto, ndr.) dovetti andare a Lanciano e lì lanciai calciatori tipo Troianiello e Pisacane. La stessa esperienza al Crotone la porto nel cuore particolarmente. Prima del Coronavirus c’erano importanti possibilità all’estero, tra la Cina ed il Kazakistan. Adesso attendiamo l’evolversi della situazione”.

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Sull’esperienza a Napoli:

“E’ il rammarico più grande della mia carriera. Non volevo andare via dall’Inter ma lì scelsero comunque di mandarmi via. L’idea di andare a Napoli mi piaceva, anche se non si trattava della grande squadra di oggi. Dopo quindici anni lì finalmente trovai in panchina Zeman, ed era uno stimolo in più per accettare questa esperienza. Ebbi molti problemi fisici e non riuscii mai a mettermi a posto. Dopo Napoli decisi di smettere perché non mi divertivo più e non me la sentivo. Non dimentico Napoli così come tutte le tifoserie in cui sono stato”.

Per finire, una considerazione sul futuro del calcio italiano:

“In Italia parlano tutti ma non ci si mette mai d’accordo. Dico che in questo momento la gente muore; quando mi alzo la mattina non penso al calcio. Sono d’accordo assolutamente sul dover ricominciare perché potrebbe portare serenità alla gente. Tuttavia credo che si dovrà ricominciare soltanto quando sarà messa in sicurezza la vita delle persone. Se apriamo tutto, tanto per aprire, facciamo danni. Chi farà queste scelte dovrà essere attento e assumersi in toto le proprie responsabilità”.

(Foto: DepositPhotos)

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