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NUMERO 14 – Un sogno e una promessa

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L’uomo del Destino si chiama Augusto. Anche se di imperiale ha solo l’autorevolezza con cui presidia la sua area di rigore. E’ l’arcigno difensore centrale del São Cristóvão di Rio de Janeiro, fisico compatto e tanta grinta da mettere in campo, anche solo per intimidire l’attaccante avversario. Che quel giorno è il centravanti dell’Atletico Mineiro, João Ramos do Nascimento, detto “Dondinho”, già autore del gol che ha sbloccato la partita. Un autentico affronto che il suo marcatore gli fa pagare ad inizio ripresa: entrata durissima sulla gamba, impatto violento e crollo rovinoso addosso con tutto il suo peso. Il ginocchio di Dondinho va in pezzi, cosi come la sua carriera. All’epoca, inizio anni ’40, in Brasile non esistevano cure mediche adeguate per infortuni di questo genere, né tanto meno una previdenza che potesse pagarle agli atleti. La sua avventura nel professionismo finisce in quel momento su quel terreno di gioco. Tutto quel che gli rimane è la speranza di avere comunque qualche soddisfazione con il calcio. E la sorte sarà generosa con lui, vedrà esaudito il suo desiderio. Con un sogno e una promessa.

Una speranza dopo la disfatta

Il suo carnefice, invece, fa strada. Gli ottimi campionati disputati con la sua squadra gli fruttano la convocazione nella Nazionale brasiliana, di cui diventa anche il capitano. Ha la fascia sul braccio quel giorno, il 16 Luglio del 1950, quando, allo Stadio Maracanà di Rio de Janeiro, si gioca la finale del Mondiale contro l’Uruguay. L’intero Brasile sente in maniera viscerale l’evento, ci sono più di 200.000 persone sugli spalti che non aspettano altro che di vederlo mentre solleva al cielo la Coppa del Mondo. Niente sembra poterlo impedire, l’assegnazione del trofeo appare come un evento già deciso, al punto che è tutto pronto per la festa prima ancora che l’arbitro dia il fischio di inizio. Ma il Destino ha deciso di negare al paese il samba più entusiasmante ed ad Augusto l’onore più grande: alla fine dell’incontro è Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay, a portarsi via la Coppa. L’intero stadio è ammutolito dal dolore, i vincitori si allontanano con prudenza, consci di aver distrutto i desideri e l’anima di un popolo intero. Ci saranno anche episodi di suicidio in mezzo a quel mare di lacrime ed incredulità. E, accanto alla sua radio, dopo aver appreso la tragica notizia piange anche Dondinho. Non si è più ripreso da quell’infortunio, ha continuato a giocare nelle categorie inferiori ma ha conservato la passione per il calcio. Ha seguito il Mondiale da tifoso, ha creduto, come tutti, nella vittoria finale. L’unico che sembra avere un briciolo di speranza per il futuro è il suo figlioletto Edson, detto Dico. Neanche dieci anni ed una grande ammirazione per il suo papà. Non sopporta di vederlo in quello stato e prende un impegno solenne. Sarà lui, un giorno, a vestire la maglia della Nazionale e a regalargli la Coppa del Mondo. Dondinho lo guarda, commosso. Ha appena ricevuto da suo figlio un sogno e una promessa.

Da Dico a Pelè

Non si è meravigliato di fronte alle sue parole. E nemmeno le ha considerate delle fantasticherie di bambino. E’ stato un calciatore, la sua esperienza non lo inganna: il suo Dico può davvero farcela. Lo ha osservato bene quel monello, mentre gioca a piedi nudi per le strade di Bauru, il piccolo centro dello stato di San Paolo dove vivono. Con il pallone tra i piedi sa fare tutto, e senza che nessuno gli abbia insegnato nulla. E’ dello stesso parere Waldemar de Brito, celebre ex calciatore degli anni ’30, ora suo allenatore nelle giovanili: il suo futuro è sicuramente su un campo da calcio. Dondinho ne sarebbe entusiasta ma c’è da superare l’opposizione della moglie Celeste. La madre di Dico teme soprattutto per la sua incolumità, una carriera da calciatore può essere stroncata in un attimo dall’intervento di un avversario. Esattamente come è successo a te, ricorda al marito. Che non può che assentire ed affidarsi a Waldemar de Brito. L’allenatore ha capito la situazione, sa come affrontarla. Lui stesso non lo vedrebbe bene nel Bangu, il club di Rio de Janeiro che si è fatto avanti per primo. Spedire quell’ingenuo ragazzino di campagna in una metropoli piena di tentazioni come la capitale sarebbe un errore. Ma c’è anche la proposta del Santos, un piccola  squadra dell’omonimo centro, molto più vicina a casa loro. Sua madre da il suo assenso, ora Dico è pronto per diventare Pelè, il nomignolo con cui è già conosciuto nell’ambiente, e per mantenere fede alla parola data al padre. Un sogno e una promessa.

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L’eredità di Dondinho

Prima della sua partenza per Santos c’è un obbligatorio faccia a faccia tra i due. Sua madre gli ha dato la sua benedizione, ora è il momento che lui gli trasmetta la sua eredità. Sia dal punto di vista tecnico che comportamentale. Non gli chiede di ascoltarlo, gli pone delle domande. La palla dove deve stare? Sempre al piede. Quale piede? Entrambi. I passi come devono essere? Sempre brevi. I tuoi occhi e la tua mente? Sempre sulla palla, come se ci fosse un filo invisibile che ci lega. A che velocità ti muovi? Cambiando passo, da rapido a lento e viceversa. Come si fanno le finte? Muovendo prima le spalle e poi il busto. Come si fa il tunnel? Con la ginga, oscillazione del bacino e movimento opposto a quello dell’avversario. Come si controlla la palla? Con tutto il corpo. Qual è il controllo di palla più importante? Quello di petto. E perché? Perché, se fatto bene, è già un dribbling. Dondinho approva e sorride. Non gli resta che abbracciare suo figlio, ricordargli di rispettare tutti senza sentirsi superiore a nessuno e augurargli buona fortuna. Non gli rammenta l’impegno che ha preso, non ce n’è bisogno. Dico sicuramente saprà cosa fare, al momento giusto, per dare forma alle loro aspirazioni. Un sogno e una promessa.

Quel volo per la Svezia

Entra nelle giovanili del Santos ma la categoria è un dettaglio. La sua dovrebbe essere l’under 15 ma gioca anche con ragazzi più grandi di lui di tre anni. E’ sempre in tribuna durante gli incontri della prima squadra e, in uno di questi, assiste all’incidente di gioco che pone fine alla carriera di Vasconcelos, il numero 10 del Santos. Sembra l’ennesima riproposizione dell’infausto presagio evocato da sua madre, l’infortunio che ha distrutto i sogni di suo padre. Ma, stavolta, la Sorte sorride benigna: l’allenatore della prima squadra aggrega Dico al gruppo come sostituto di Vasconcelos e lo fa esordire alla prima occasione. Gol al debutto e conquista immediata del posto in squadra. Il titolo di capocannoniere del campionato paulista fa finire il suo nome sul taccuino di Vicente Feola, c. t. della Nazionale. Appena un anno dopo suo padre sente alla radio l’elenco dei 40 preconvocati per l’imminente Mondiali in Svezia: c’è anche Dico. Il ragazzo è raggiante ma ritiene di non poter passare l’ultima scrematura, quella da cui uscirà la lista definitiva dei 22 che parteciperanno alla competizione. Anche perché si gioca il posto con Luizinho, centravanti del Corinthias, uno dei giocatori più quotati nell’ambiente. Ma l’allenatore crede in lui e lo conferma, lasciando fuori il più esperto rivale. Il gruppo dei prescelti disputa una ultima amichevole prima della partenza e, sul finale della partita, una dura entrata di un difensore lascia Dico a terra. E’ un intervento premeditato, l’invidia dei veterani vuole estrometterlo dal Mondiale. Lui piange disperatamente, piegato in due dal dolore, teme che sia tutto finito. Solo l’intervento del massaggiatore Americo riesce a confortarlo. Feola lo vuole abile e arruolato, lo staff medico lo rimette in piedi appena in tempo per condurlo all’aereoporto.  Il volo è Rio de Janeiro – Roma, Dico passa tutto il tempo a pensare al suo obiettivo. E a suo padre. Un sogno e una promessa.

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