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Angolo del tifoso

ANGOLO JUVE – Acrobati

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Non ero abituata a dover scrivere di sconfitte, di dubbi continui, di una strada che si sa da dove cominci ma non si sa affatto dove finisca. Finisce al confine probabilmente, qualcuno dotato di tagliente ironia ci proverà di certo a darci un’indicazione: e ne avrà ben ragione. Perché se andarci vicino conta solo a bocce per voi, beh conta anche per noi. Pensate quest’anno, in cui l’idea dello scudetto ormai non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello.

Ma mai come in questi mesi, non so soffrirne. Forse toccherà chiudersi dentro casa a rimuginare quando sarà Antonio Conte di nerazzurro vestito a sollevare la coppa che per nove anni di fila abbiamo portato al J Museum, toccherà fermarsi a riflettere se la scelta di mandare a casa in anticipo Maurizio Sarri a favore di un ex calciatore che oggettivamente l’allenatore non l’aveva fatto mai sia ancora alle fondamenta di un progetto.

Il problema è che siamo come funamboli. Dopo la sconfitta in casa con il Benevento, le tante positività in squadra e in ultimo il party a casa McKennie con tanto di multa ed esclusione dal derby con il Toro, mi sento come uno di quegli acrobati che camminano su un filo teso.

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Juve-Napoli è il mio derby personale, è il “sei campana e tifi Juve”, è il dover spiegare per quale motivo certe cose non si possono spiegare. Ma mai come questa volta, chi mi trovo di fronte è secondario: l’andata del ritorno, Juve-Napoli di non so nemmeno più quanti mesi fa. Di quando lo scudetto poteva essere ancora un’idea concreta, di quando ci saremmo fatti una risata se ci avessero detto che ad Aprile ci saremmo ritrovati faccia a faccia a dover combattere per la zona Champions.

Andrea Pirlo non sente ancora tremare la sua panchina. La fiducia l’ha avuta dall’intero management, ma si sa, le parole le porta via il vento. E allora per riagganciare la squadra alla carrucola che lo terrà ancora sul ciglio del baratro si affida a quanto di amor proprio e di orgoglio è rimasto a questa squadra, all’uomo dai trenta milioni all’anno, a Chiesa bistrattato da chiunque a inizio campionato, ma soprattutto a chi a quarantatré anni non sa smettere di essere faro in questi giorni di pura tempesta calcistica.

Provateci voi del resto, a giocar male quando Gigi Buffon non smette di urlare alla squadra: di star compatti, di essere tale anche quando è tempo di difendere. A Ronaldo stasera si affianca Morata, ma quella sinfonia, il dialogo che tanto desideriamo vedere in campo non è certo con lo spagnolo. Mia nonna dice sempre che i soldi vanno dove sono i soldi: sarà che i trenta annui di Cristiano e i quaranta meravigliosamente spesi per l’acquisto di Chiesa si parlano, sarà che è appena passata la Pasqua e che non potrebbero avere dei nomi più perfetti di così.

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Cristiano divora un goal di testa, in solitudine davanti a Meret, proprio come tutti noi abbiamo fatto con la pastiera fino a due giorni fa, non negate. Ma il calcio al palo difeso dal portiere azzurro è un segno: di rabbia, di necessità. C’è bisogno che Bentancur ricominci a strappare, che Rabiot riprenda a cavalcare, che Cuadrado non smetta mai di macinare chilometri e lasciarsi indietro gli avversari. Chiesa al tredicesimo decide mostrare a Hysaj di che pasta è fatto, lo imbambola, lo lascia totalmente stordito, e libera il cross per Cristiano che non deve far altro che insaccare. Un tempo intero in cui questa è un’altra Juve. La sala Var invece resta più o meno sempre la stessa: Lozano atterra Chiesa, che è molto vicino alla linea di fondo. Zielinski viene invece atterrato in area da Alex Sandro, anche qui nessun cenno di rigore. Ma allora risparmiamoceli certi investimenti.

Ma mal comune mezzo gaudio, le polemiche sono salve: fatta eccezione per le radiografie che talvolta si sono trasformate in TAC dell’intervento su Chiesa: perché di certo ci sono i rigori, ma alcuni sono più rigori di altri.

Signori miei, interesse meno di zero. Perché sta uscendo Morata, autore di una prova piuttosto scialba, e sta entrando Paulo Dybala. Che fino a qualche minuto prima dall’inizio del match si diceva avesse ancora dolore al ginocchio.

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Vorrei provarlo io quel dolore. Provarlo, e poi provare la sensazione del cuore che ti esplode nel petto quando sei fermo da mesi, metti piede in campo, e impallini l’angolino basso della porta avversaria con il tuo sinistro benedetto da qualunque divinità in cui voi crediate.

Ho pianto, che ci crediate o no. Che vi faccia anche sorridere. Perché ho visto Tek Szczesny lanciarsi dalle panchine e correre a perdifiato verso l’argentino, li ho visti tutti sommergere un uomo con la faccia da bambino che aspetta la sua redenzione.

E poco conta se per Insigne c’è l’ennesimo rigore da segnare. Posso sacrificare il clean sheet, se in cambio mi viene restituita la fame atavica, di quella che ti fa strizzare la maglietta a fine gara.

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Io sul filo voglio starci eccome, voglio guardare dritto verso l’orizzonte: ecco, è quel “voglio” che può cambiare tutto.

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