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Serie A, l’iceberg di debiti e la caccia alle streghe

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A rotta di collo: non sovviene espressione migliore a definire la velocità con la quale la Serie A si sta – pericolosamente – avvicinando al prossimo, personalissimo traguardo. Quello della bancarotta. Non tanto per l’azienda in sé per sé, quanto piuttosto per le compagnie satellite che da essa pendono: i club.

Argomento di discussione quotidiano è, ovviamente, il Covid. E qualcuno sicuramente ha voluto tirarlo in mezzo anche qui: non si sa mai, tra qualche polemica sul terminare il campionato e l’interesse – di facciata? – per la salute dei calciatori, qualcosa potrebbe uscirne. Ma davvero il Covid può essere considerato il solo protagonista, il tanto vituperato “vaso di Pandora”, di questa calcistica cronaca nera? Il riduzionismo non ha mai aiutato nessuno; nemmeno in questo caso, tanto eterogeneo e sfaccettato qual è, è possibile prendere in considerazione tale linea di pensiero.

CONTI IN ROSSO: LA SERIE A ASSEDIATA SU PIU’ FRONTI

Perché seppur dire che il Covid non è l’unico responsabile della drammatica situazione economica della A, il baccello della SARS ha comunque contribuito a rendere più amara la visione dei conti. I club sono stati fortemente penalizzati dall’esigua affluenza negli stadi. Secondo le stime riportate da Il Corriere della Seradurante la stagione 2018-19 gli ingressi si attestarono intorno ai 9.6 milioni di spettatori; più drammatico il bilancio dello scorso anno, con l’improvvisa scalata pandemica e lo stop delle competizioni, con gli ingressi fermi a 6.9 milioni. Cifre capovolte che però fanno sorridere – solo – gli analisti, visto il profondo rosso della stagione 2020-21: quarantaduemila spettatori, non tutti paganti.

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Il quotidiano diretto da Luciano Fontana ha stimato una perdita che andrà oltre i 300 milioni di euro a fine stagione, cifra insostenibile per le società che andranno incontro anche ad un taglio del 40% dei fondi degli sponsor e introiti minimi dal merchandising. Nell’ultima stagione, si legge, le perdite aggregate delle venti società della massima serie ammontano a 770 milioni di euro. Eppure, i club entro il primo dicembre dovranno andare incontro anche al saldo degli stipendi: circa trecento milioni, stipendi che in Serie A hanno sfondato il muro di 1.3 miliardi di euro.

Il calcio italiano, del resto, non è mai stato lungimirante da un punto di vista finanziario. Non ha mai chiuso i conti di fine stagione in positivo – eccetto per la stagione 2016-17, dove si è riscontrato un attivo di tre milioni; ci si è trovati impreparati di fronte all’emergenza senza stadi di proprietà, eccessiva patrimonializzazione e dipendenza dai diritti televisivi. Diritti per i quali c’è ancora guerra totale con le emittenti eroganti le partite. La Serie A ha vinto la cuasa contro Sky, Dazn e Igm, ma di fondi arrivati non c’è traccia, e manca ancora l’ultima rata di 230 milioni di euro. Soldi che aiuterebbero a far rifiatare le casse ma che, al momento, sono stati autorizzati solo in tribunale.

CACCIA ALLE STREGHE

La risposta, più populista che statistica, più facile a cui arrivare per arginare una crisi che al momento appare inevitabile è la seguente: tagliare lo stipendio dei calciatori. Non che non ci abbiano provato: lo stesso Gabriele Gravina, presidente della FIGC, ha preso a cuore la questione, portandola all’attenzione di Uefa, Fifa ed Eca, oltre che ai massimi campionati europei tutti, per trovare un accordo in tal senso. Una sorta di “salary cup”, come già si usa nella più seguita pallacanestro americana, l’NBA. Decisione, questa, che dipende dalla Uefa ma che consiste in semplice “fumo negli occhi”: i contratti, continua il CorSer, sono individuali; non può esistere un organismo in grado di controllarli tutti. Significherebbe, a questo punto, riorganizzare un sistema pesante e decaduto, ma da cui molti ancora traggono effettivi vantaggi.

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Se da un lato c’è l’assedio, dall’altra gli assedianti si difendono con le unghie e con i denti. Perché i calciatori no, lo stipendio non vogliono tagliarlo ancora. Da un lato Leonardo Bonucci, che recita: «La riduzione degli ingaggi? Alla Juve lo abbiamo fatto, ma il calcio non si salva solo chiedendo ai giocatori di ridursi l’ingaggio»; dall’altro il presidente dell’associazione calciatori, Umberto Calcagno, che ribadisce: «I giocatori sono pronti a offrire il loro contributo. Ma da quali fattori è stata determinata la crisi dei club? Solo dal Covid o da una visione parziale degli ultimi dieci anni delle società? A livello comunicativo è facile inviare il messaggio che i costi da tagliare sono gli stipendi dei giocatori, ma il 50 per cento dei professionisti guadagna meno di 50 mila euro lordi. È difficile trovare un accordo che vada bene per tutti. Dobbiamo avere aiuti dal Governo».

E mentre tutti discutono con(tro) tutti, il calcio italiano conta le crepe. Ma una “Caccia alle streghe di Salem” posposta di trecento anni non converrebbe a nessuno; lo sa anche la Lega, che – sempre a quanto si apprende dal Corriere della Sera – ha aperto alla creazione di una media company per l’acquisizione dei diritti tv. C’è anche chi è interessato alla novella MediaCo, come il gruppo Cvc-Advent-Fsi, che ha alzato l’offerta ad 1.65 miliardi di euro per l’acquisizione del 10%. Un’”ancora di salvataggio”, come definita dal Corriere, ancora però incapace di galleggiare. Giovedì si voterà. Il presidente della Lega Serie A Dal Pino, dal canto suo, rimane ottimista; gli altri un po’ meno.

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