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#DIE60 – L’antropomorfizzazione di un Dio

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Maradona
Tempo di lettura: 3 minuti

Come sarebbe un Dio, se decidesse di vestire i panni di un uomo? Probabilmente avrebbe dei riccioli scuri, selvaggi, il piede mancino più sicuro del destro; non sarebbe più alto di un metro e settanta e, di certo, nascerebbe in Argentina. L’Argentina, la Patagonia dell’est, dove l’amore per il calcio è secondo solo a quello della carne bovina.

Nascerebbe povero, questo Dio. Nascerebbe tra gli stenti di una realtà, quella di Lanùs, a sud di Buenos Aires, mentre la Capitale è vessata da scontri politici e rappresaglie. Peròn era stato deposto cinque anni prima, l’ondata populista del suo movimento soppressa dai militari che a più riprese avrebbero ottenuto di forza il potere. A quel Dio, però, di politica e sotterfugi interessava poco. Amava guardare i treni che passavano, e rubare zucche nell’orto dei vicini. Tutti i giorni, tranne la domenica. Di domenica si va alla Bombonera; di domenica gioca il Boca Juniors.

Accade che quel Dio, la cui epifania era ancora sconosciuta, si innamora del pallone. Si innamora degli spalti, dell’odore dell’erba, del grasso per gli scarpini altrimenti rovinati dalle intemperie della gioventù. Si innamora del Boca Juniors – pochi anni dopo, gli spalti della Bombonera canteranno il suo nome; si innamora di una zona speciale del campo, la trequarti; ma soprattutto si innamora di una maglia, la dieci, che indosserà come una seconda pelle. In Argentina, in Spagna, in Italia.

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Nella ridente Catalogna il Dio fa conoscere il suo talento all’Europa. Un’Europa che poco più di vent’anni prima era capitolata, Nazione dopo Nazione, ai brasiliani di Pelè, archetipo del mito calcistico ormai ritiratosi a vita privata. Una sempre più inebriante sensazione di rivalsa si fa largo tra Carrer Tallers e la Rambla, arrivando a toccare i più alti pinnacoli della Sagrada Familia, dove Antonio Gaudì aveva lasciato incompiuto il suo genio. Ma le discrepanze tra l’alta borghesia cominciano a cozzare troppo l’attitudine del Dio, forgiato prenatale dal populismo di Peròn e dalle storiche vicissitudini argentine in cui era cresciuto.

Parte, e approda a Napoli. Dal sud al sud. Buenos Aires e Napoli, analogamente eterogenee e sfaccettate. C’era tanta Villa Fiorita, in quel di Soccavo. Un posto caldo, un posto da considerare casa. L’unica differenza era l’età: il Dio era cresciuto; l’impolverato ragazzino più basso di tutti era rimasto basso, ma con qualche anno in più. Non era più “El Pelusa” – se in Argentina non hai un “apodo” scordati di giocare a pallone, si dice; ora, era conosciuto dal mondo come Diego Armando Maradona. Il Dio era assurto a Re, capitano di un Napoli populista, delle masse, la cui Soccavo degli anni ottanta ne diviene la cartolina più emblematica. A Napoli vive, a Napoli cade, perché un corpo umano non può sostenere le virtù e i vizi di un Dio. Ma si sa: “Life is Life” – più che degli Opus, della semifinale di Coppa Uefa contro il Bayern Monaco, teutonico baluardo caduto sotto il malizioso genio.

Quando una stella brucia tanto, al suo spegnimento fa più freddo. E forse è per questo che si cerca ancora, incessantemente, chi possa prendere lo scettro e la tiara del suo abdicato talento. Cristallizzato, il suo volto è impresso nella memoria di tutti. “Uno sgorbio divino, magico e perverso”, come lo ha definito Gianni Brera, la cui firma viaggia di pari passo alla storia di quel Dio, cantore di gesta forse troppo umane per poter ascendere ai Cieli. Alla fine, però, a chi importa? E’ un patrimonio terreno: all’Eden possono pensarci gli altri.

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Buon compleanno, Diego.

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