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SILENT CHECK – Palloni sgonfiati e… petto in fuori

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Lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla”. Non l’ha scritta uno qualunque, ma Pierre De Coubertin, quello – per intenderci – del concetto, assai parafrasato, de “L’importante non è vincere, ma partecipare”.

Ciò che nei secoli non è riuscito alle guerre, alle catastrofi naturali e ad alcuni tra i più grandi eventi della storia, nell’anno 2020 è riuscito per ben due volte di fila ad un mostro informe e sconosciuto chiamato Covid-19.

Si è fermato lo sport, di nuovo. Non – per ora (e chissà fino a quando) – a livello professionistico, dove si alternano contagi, guarigioni, polemiche e tante chiacchiere, ma a livello dilettantistico e amatoriale, nelle palestre e nei circoli, nelle aree pubbliche e nei palazzetti.

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E se, come ha detto qualcuno, “il gusto dello sport è un’epidemia di salute”, fermarlo nuovamente è la cifra della delicatezza della fase che si sta vivendo con sensazioni diverse e peggiori rispetto alla primavera scorsa.

In ciascun angolo del pianeta, infatti, dove c’è un pallone che rotola o gente che suda correndo, c’è un obiettivo da raggiungere, un traguardo da tagliare con gioia, un risultato da andare a conquistare con fierezza. Sapere che tutto ciò è di nuovo vietato per legge genera certamente polemica, ma impone anche riflessioni profonde.

Perché l’unica forma di contagio che si trasmette più velocemente del virus, si sa, è la paura. Difficile non averne in questo autunno che pare aprire le porte ad un inverno ancor più freddo e cupo di quanto già si potesse facilmente immaginare.

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Le scelte, in generale, si fanno in pochi secondi, ma si scontano per tutta la vita. Ecco perché chi ha l’onere e l’obbligo di amministrare – a qualsiasi livello – una fase come questa merita rispetto, qualunque sia la decisione che prende, ma andrebbe pure aiutato.

C’è però, nei meandri d’un capoverso di un DPCM come tanti, chi – stavolta più che mai – non ha accettato di buon grado.

Mesi di lavoro, adattamenti delle strutture e dei locali, incontri, protocolli da rispettare, genitori da rassicurare, iscrizioni pagate, sponsor che hanno dato sostegno: a pagare lo scotto maggiore di questo mini-lockdown sono le associazioni sportive dilettantistiche, le palestre e le piscine, i centri di aggregazione ed i circoli sportivi. Con loro – a causa del vorticoso aumento dei contagi e della necessità di provare a tutti i costi a limitarne o circoscriverne la diffusione – soffrono i più giovani, privati del luogo naturale ove crescere nei rapporti interpersonali, formare il carattere, irrobustire le virtù.

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Discutere di questo, in un Paese ormai da oltre 20.000 contagi al giorno di media (e con prospettive davvero poco positive per i prossimi due mesi), pare oltraggio al pudore ed offesa per tutti coloro che dall’infezione sono colpiti e col virus combattono per diverse settimane e, in alcuni casi (pochi, per fortuna) non ce la fanno.

Se però la soluzione per i professionisti stramilionari del pallone pare esserci e richiede solo sacrificio e buona volontà (quelli che servirebbero per imporre una gigantesca “bolla” a tutte le squadre del massimo campionato, cui dovrebbe essere impedito alcun contatto con l’esterno ad eccezione di allenamenti e partite settimanali ed infra-settimanali), per la stragrande maggioranza degli uomini comuni tutto sembra restringersi ad un vicolo cieco.

Il distanziamento fisico imposto dal virus, dunque, ha chiuso ancora una volta non solo le porte degli stadi (in quelli entra la tv satellitare, capace addirittura di creare ologrammi e fingere presenza numerosa e colorata sugli spalti), ma addirittura gli ingressi dei luoghi dove ci si distrae, si ci mette in forma, si cerca un momento di relax e si costruiscono benessere e relazioni umane interpersonali di cui c’è vitale bisogno.

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Albert Einstein amava ripetere come “senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia”. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del novecento, però, il grande fisico tedesco naturalizzato svizzero e statunitense, giammai poteva immaginare che la sfida di fine primo ventennio nel terzo millennio potesse prender la forma d’un qualcosa che si trasmette nell’aria, entra nei polmoni e – a suo piacimento – genera sintomi (o anche no) e lascia, di rado, strascichi cardiovascolari o polmonari.

E’ attribuita al quattordicesimo Dalai Lama della Storia, al secolo Tenzin Gyatso, la frase: “Per affrontare la sfida del secolo venturo gli esseri umani dovranno sviluppare un maggiore senso di responsabilità universale. Ciascuno deve imparare a lavorare non solo per sé, per la sua famiglia o la sua nazione, ma a favore di tutta l’umanità”, pronunciata assai prima degli attuali 85 anni d’età in cui – come tutti – ha conosciuto l’esistenza nel mondo del Covid-19.

“Avere comportamenti a favore di tutta l’umanità”: è questa la chiave di volta e l’orizzonte di riferimento.

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Comprendere che si è pedine d’una gigantesca partita dove, in gioco, ci sono parecchie vite e dove i movimenti e le pedine non possono essere caratterizzati da approssimazione, sbadataggine, improvvisazione e superficialità.

L’anno 2020 ci ha ormai fatto abituare a mascherine su naso e bocca, divenute in poco tempo addirittura accessori di moda, e gel igienizzanti neutri o profumati. E se l’imperativo della natura è sempre lo stesso: adattarsi o perire, i cittadini del mondo più contagioso di sempre non hanno scelta e per ora rinunceranno allo sport.

L’intelligenza è capacità di adattarsi al cambiamento. Quando esso è imposto per ragioni costituzionali o supreme si può discutere, ma il tutto lascia il tempo che trova.

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Per ogni pallone che si sgonfia, però, un petto dovrebbe fare l’opposto: venir fuori e aprirsi allo sguardo fiero che scruta l’orizzonte e attende solo che passi.

Perché passerà.

Ed ogni bambino potrà ricominciare a fare quel che ha sempre fatto dalla notte dei tempi: correre dietro ad una palla, sudare con gli amici, dar senso e sostanza alla disciplina più educativa del mondo, lo sport.

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