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UN CALCIO AL SUPERSANTOS – Come vincere? Non chiedete al Bayer Leverkusen.

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Le stagioni calcistiche sembrano essere sempre uguali: si alternano alti e bassi, euforia e crisi. È probabile che arrivi un nuovo allenatore, un nuovo staff tecnico, e, col mercato di gennaio, anche nuovi giocatori. Ma una cosa va sempre allo stesso modo: il Bayer Leverkusen non vince. Mai.

Si dice che la storia la facciano i vincitori e così è, spesso, anche nella storia del calcio. Tuttavia, è vero anche che il calcio è pieno di gesta di eroi sfortunati, giunti a un passo dalla gloria imperitura e poi tramandati ai posteri come perdenti; conservando però un fascino a volte superiore rispetto a chi ha vinto, specie se ha vinto dove un secondo posto è considerato un fallimento. Samuel Beckett, commediografo inglese, diceva“Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa. Riprova. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.

È questo il caso del Bayer Leverkusen.

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Nonostante Leverkusen abbia una popolazione di oltre 150.000 abitanti, è generalmente considerata parte della periferia settentrionale di Colonia, che si trova pochi chilometri più a sud e conta più di un milione di abitanti. La cittadina deve la sua notorietà quasi esclusivamente alla presenza della Bayer, una delle più grandi case farmaceutiche al mondo, fondata a fine Ottocento, a una quarantina di chilometri di distanza da Leverkusen, luogo scelto più di un secolo fa per ospitare la sua sede principale. Da allora la città “vive” grazie alla Bayer, la cui area occupa circa un terzo della superficie cittadina.

Bayer, famosa in tutto il mondo per la sua Aspirina, diede alla città anche una squadra di calcio, il Bayer 04 Leverkusen Fußball. In origine, nacque come squadra aziendale; poi, nel corso degli anni, crebbe fino a diventare un club professionistico. Da almeno quarant’anni il Bayer è una delle squadre tedesche più note e presenti nelle coppe europee. Gioca in Bundesliga ininterrottamente dal 1979, non avendo vinto, però, mai un campionato. Si è piazzata al secondo posto in cinque diverse stagioni, ma è inevitabile parlare del secondo posto (anzi, meglio dire “secondi posti”) del 2002.

Il Bayer, nella sua storia, ha conquistato due titoli importanti: il primo è la Coppa UEFA del 1988, vinta in finale ai rigori dopo una grande rimonta sull’Espanyol che aveva vinto 3-0 al Sarriá, con in panchina Erich Ribbeck e tra gli stranieri il brasiliano Tita (poi al Pescara) e il coreano del Sud Cha Bum-Kun, uno dei primi asiatici a emergere in Europa.

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Il secondo titolo è la Coppa di Germania del 1993, vinto con il gol di Ulf Kirsten, il bomber della riunificazione (100 presenze internazionali divise a metà in modo quasi chirurgico, 49 con la Germania Est e 51 con la Germania unita).

Ecco, il punto di partenza per il Bayer Leverkusen, che sta per affrontare la stagione 2001-2002, è questo.

Allenatore del Bayer Leverkusen nella stagione 2001-2002 era il cinquantenne Klaus Toppmöller, ex attaccante del Kaiserslautern, chioma riccia e brizzolata, che, in precedenza, aveva allenato Eintracht Francoforte e Bochum. Fin lì non aveva ottenuto alcun importante successo, ma era molto apprezzato per il buon lavoro svolto con squadre tedesche di fascia media.

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Con lui arrivarono il portiere-rigorista Butt, il terzino ex Wolfsburg Zoltán Sebescen, di origini ungheresi e il trequartista turco Yildiray Bastürk, uno dei tanti nati e cresciuti in Germania, preso dal Bochum. L’ossatura della squadra non era stata stravolta; Butt avrebbe dato sicurezza in porta, ben protetto dal capitano Nowotny e dal 23enne brasiliano Lucio, preso un anno prima dall’Internacional di Porto Alegre, giocatore possente che amava (ricorderete anche nell’Inter del ‘triplete’) le sgroppate verso l’area avversaria che gli valsero il soprannome di ‘O Cavalo’.

Toppmöller giocava con un 4-4-1-1 (con variante 4-1-4-1) che prevedeva in avanti Oliver Neuville: non certo un gigante, non uno che faceva salire la squadra prendendosi a sportellate coi difensori avversari; era invece piccolo e rapido, bravo comunque a creare spazi per gli inserimenti dei centrocampisti, anche se non disdegnava il gol.

Curiosa la storia di Neuville: figlio di un tedesco di Aquisgrana (di origine belga, da cui il cognome francofono) e di una calabrese, nacque e crebbe in Svizzera, nel Canton Ticino, iniziò al Servette e poi un anno al Tenerife. Con il trasferimento all’Hansa Rostock si guadagnò la convocazione in Nazionale.

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Oliver, che è di madrelingua italiana, parlava francese e un po’ di spagnolo ma assolutamente non tedesco; aveva, dunque, bisogno dell’interprete. “Mio padre mi parlava in tedesco quando si arrabbiava, ma siccome si arrabbiava pochissimo non l’ho mai imparato”.

Poi c’era Michael Ballack, altro autentico gioiello dei rossoneri. Un predestinato e un uomo molto determinato, se si pensa che a sedici anni gli venne detto, dopo un’operazione, che non avrebbe potuto mai diventare un calciatore professionista. Invece, Michael restò fuori poco più di un anno e rientrò, tra lo scetticismo generale, diventando un ottimo giocatore.

Con lui, dietro l’unica punta, c’erano Bastürk e sulle fasce il brasiliano Zé Roberto – esploso dopo il fallimento al Real Madrid – e Schneider. Davanti alla difesa il biondo e macchinoso Carsten Ramelow, berlinese di nascita ed ex Hertha, ormai al settimo anno in rossonero (si ritirerà nel 2008, dopo ben tredici stagioni a Leverkusen).

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Il Bayer di Toppmöller iniziò subito molto bene la stagione, ottenendo una buona serie di risultati sia in campionato che nelle coppe, forse inaspettatamente per le previsioni della società, i risultati della squadra andarono presto ben oltre le aspettative.

Le ‘aspririne’ riuscirono a trascorrere un autunno incredibile, nove punti nelle prime tre partite con la prestigiosa vittoria sul Barcellona firmata da Bastürk e dal solito Neuville, che ribaltarono il risultato alla BayArena dopo il gol di Luis Enrique. (Ricordiamo che il regolamento Champions di allora prevedeva due diverse fasi a gironi).

Arrivò, così, la qualificazione alla seconda fase a gironi, con due partite prima della sosta invernale e quattro a febbraio-marzo. La Dea bendata non fu poi tanto clemente coi tedeschi, dicendo Juventus, Arsenal e Deportivo La Coruña.

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Intanto, il Leverkusen in campionato pareva inarrestabile, vincendo dieci partite su undici e alla quattordicesima giornata si ritrovò sorprendentemente, ma meritatamente, in testa, a +4 sul Bayern e +5 sul Dortmund, unica squadra ad aver strappato un pari alla squadra della Renania, al Westfalenstadion.

La serie in campionato si fermò il 1° dicembre con la sconfitta 2-1 in casa del Werder, partita che si disputò due soli giorni dopo quella di Torino dove la Juventus travolse letteralmente i ragazzi di Toppmöller con un 4-0.

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Eccolo il primo momento nero della stagione, anche se il Bayer riuscì a conquistare il titolo di campione d’autunno al termine del girone d’andata. Prima della pausa il Leverkusen venne raggiunto in vetta del Dortmund dopo la sconfitta di Wolfsburg, ma un ottimo 3-0 sul Deportivo lo rimise in gioco in Champions, dove tutte e quattro le squadre prima della sosta sono a tre punti.

Insomma, si andò in letargo con il Bayer in corsa per tutto, con due turni di coppa di Germania superati con Jahn Regensburg e Bochum.

Il rientro dalla pausa fu, però, disastroso. Le sconfitte con Bayern e Schalke portarono il Dortmund a +4. Per fortuna per la squadra di Leverkusen, i gialli del Borussia persero qualche punto e il 24 febbraio arrivò lo scontro diretto alla BayArena, dove i rossoneri trionfarono, grazie ad una prestazione enorme: 4-0 con quattro marcatori diversi (Ballack, Ramelow, Neuville e il giovane bulgaro Berbatov) e nuovamente primo posto.

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Intanto in Champions arrivò la batosta di Highbury, 4-1 con Henry e Bergkamp sugli scudi. La situazione si complicò notevolmente, Arsenal e La Coruna  a 7 punti, Leverkusen e Juventus a 4.

Lo “spareggio della speranza” lo vinse il Bayer, che riuscì a superare 3-1 la Juve. Le marcature furono aperte da un rigore di Butt, che in Champions detiene il record singolare di avere segnato 3 gol, tutti dal dischetto e tutti contro i bianconeri, ma con tre maglie diverse (le altre due di Amburgo e Bayern).

Il Deportivo sbancò clamorosamente Highbury e passò il turno, con l’Arsenal che, però, aveva ancora il pallino in mano: se avesse vinto a Torino contro la Juve, ormai eliminata, avrebbe proseguito il cammino.

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Furono proprio i bianconeri a dare la mano decisiva al Leverkusen per il passaggio ai quarti, battendo l’Arsenal con il gol di Zalayeta. Ballack e compagni arrivarono addirittura a vincere il girone.

L’urna, come al solito benevola, regalò l’ostico Liverpool di Houllier, detentore della Coppa UEFA.  All’andata fu il difensore centrale finnico Hyypiä a segnare l’unico gol; il ritorno a Leverkusen fu in bilico, coi padroni di casa avanti 3-2 e Lucio che realizzò a sei minuti dalla fine il gol della qualificazione col pallone che passò tra le gambe del portiere inglese.

Intanto, il pareggio di Amburgo, unito alla sconfitta del Dortmund regalò anche il +5 in campionato, mentre in coppa nazionale i successi su Hannover, Monaco 1860 e Colonia portarono le “Aspirine” in finale contro lo Schalke. Insomma, un periodo magico per Ballack e compagni.

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Sembrava un sogno ad occhi aperti: il piccolo Bayer con una rosa cortissima vedeva il traguardo; ma il fiato si faceva sempre più corto.

A Old Trafford arrivò forse l’ultima grande prestazione della stagione, un 2-2 in casa United in semifinale con la terza inglese incontrata nel tragitto europeo. Pensare che sir Alex Ferguson, senza alcuna malizia, in conferenza stampa, sbagliandosi disse Kaiserslautern invece che Leverkusen.

Fu Oliver Neuville a segnare il gol del pari alla BayArena: 1-1 che per i gol in trasferta voleva dire finale, contro il favoritissimo Real, che nelle ultime edizioni disputate in anni pari (1998 e 2000) aveva vinto il torneo.

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Come un bambino che vede tre pasticcini sul vassoio, Toppmöller cercò di prendersene almeno uno, ma in giro era pieno di “ladruncoli” che glieli volevano togliere.

La Bundesliga, in primis: dopo il pari di Amburgo ci fu l’insidiosa partita col Brema, che già all’andata aveva vinto. Un tiro da lontanissimo di Lisztes porta avanti gli anseatici, e anche a Dortmund sugli spalti si cominciò ad esultare. Ancora più grande la gioia quando il Borussia riuscì a segnare con un tiro da fuori del giovane Rosicky.

A Leverkusen pareggiò Zé Roberto, poi Butt si fece parare il rigore dal collega Rost e all’intervallo la situazione era 67-64 per le “Aspirine”. Ma Ailton portò in vantaggio il Werder, a Dortmund i gialloneri tremarono per lungo tempo, ma trovarono il gol di Marcio Amoroso (ex stella del calcio italiano) nel finale, dagli undici metri. Due reti ad una da entrambe le parti, e Dortmund a meno due dalla vetta.

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Tutto gira intorno al numero due. Alla penultima, il Leverkusen andò a fare visita al pericolante Norimberga, che segnò di testa con Nikl mentre ad Amburgo il Dortmund e precisamente Amoroso guadagnò un rigore e provocò l’espulsione di Hertzsch. Il primo tempo si chiuse sul 2-1 Dortmund con parità numerica ristabilita, poi Amoroso per il 3-1, Hoogma per il 3-2 e infine segnò il gigante Koller a chiudere la partita. Inutile il goal di Mejier: Amburgo – Dortmund 3-4, e sorpasso in classifica definito, visto che a Norimberga non ci furono più goal.

I numeri, in realtà, non davano ancora torto al Leverkusen, che ospitava all’ultima giornata l’Hertha Berlino, mentre il Dortmund riceveva il Werder. Purtroppo per le ‘Aspirine’ cambiò poco: vinsero entrambe, e, dunque, il primo pasticcino fu portato via da un ragazzaccio coi capelli rossi, Matthias Sammer che 35 anni vinse il suo primo e unico titolo da allenatore.

A Leverkusen rimasero attoniti, anche se c’era ancora la viva possibilità di vincere Champions e DFB Pokal. C’era tempo per ricaricare le pile. Nelle teste dei tifosi risuonavano però le parole del direttore del Bayern Monaco, Uli Hoeness: «Il Leverkusen non vincerà mai nulla, nelle partite importanti indossano il pannolone

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Berlino. Finale di Coppa di Germania. Schalke 04 – Bayer Leverkusen 4-2: ed anche il secondo ed agognato dolcetto di Toppmöller fu soffiato dall’olandese Huub Stevens.

Mancava quello più succulento, all’Hampden Park di Glasgow; e chissà se partire da sfavoriti non fosse meglio, a questo punto.

Il Bayer giocò una delle migliori partite del finale di stagione, ma andò subito sotto per il gol di Raul, un tocco perfido al volo su cui Butt non arriva. Il Real aveva fior di campioni, come Casillas, Figo, Ronaldo (il fenomeno), ma, nonostante tutto, arrivò il gol di Lucio.

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Si giunse, però, al punto più alto della carriera di uno dei calciatori più forti di sempre: arrivò il gol di Zidane.

Butt non ebbe la possibilità di far nulla, se non applaudire. Un gol ormai storico per la sua bellezza; nella ripresa più volte il Leverkusen sfiorò il pari, ma un grande Casillas gli negò ben tre occasioni e anche questa finale fu persa: la coppa fu alzata da Hierro.

Di certo una mazzata, anche per una piazza che non era e non è abituata a vincere, anzi forse si percepiva maggiormente quanto grande fosse stata l’occasione persa.

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Per trovare una debacle simile in pochi giorni bisogna andare indietro di 35 anni, quando l’Inter nel 1967 perse lo scudetto all’ultima giornata, la coppa dei campioni in finale e la coppa Italia in semifinale con l’outsider Padova, ma l’Inter era alla fine di un ciclo vincente di tre scudetti, due coppe campioni e due coppe intercontinentali, non esattamente la stessa cosa.

Nacque, così, il “mito” del Bayer Neverkusen, gioco di parole con l’inglese “never”. Mai.

Il calcio, a volte, può essere davvero crudele. TI fa sentire fortissimo, imbattibile, immortale, ma, così come la vita, a volte, da un momento all’altro, c’è uno sgambetto che ti fa inciampare. E se non ti sai parare, se non sai cadere, il dolore può diventare straziante.

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Straziato era il cuore dei tifosi delle ‘Asprine’, così come quello di chi scrive, che quell’anno (a nove anni) aveva seguito l’intera stagione dei tedeschi, facendo un tifo clamoroso per loro.

E allora non ci/mi resta che consolarci. Come diceva un grande Fernando Pessoa: “Preferisco una sconfitta consapevole della bellezza dei fiori, piuttosto che una vittoria in mezzo ai deserti, una vittoria colma della cecità dell’anima, di fronte alla sua nullità separata”.

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